Anch’io, come molti di noi, pensavo che alla fine l’Eti ce l’avrebbe fatta, soprattutto perché in Italia le riforme avvengono per sovrapposizione di enti, persone, funzioni, quasi mai azzerando la situazione e ricostruendo sul pulito. Quindi sono tra quelli che avevano mal giudicato la situazione. Provo ora a interpretare la conseguenza di questo stato di cose, sperando di aiutare la comprensione della nostra prossima realtà. In un recente colloquio con Ninni Cutaia, in cui chiedevo informazioni su quanto stava accadendo, ho sentito il sincero dispiacere con cui l’ex direttore generale lamentava il silenzio con il quale il teatro italiano ha accolto la “dismissione” (per usare le parole di Ermanno Rea) dell’ente. Non mi era facile contraddirlo, perché in effetti, a parte le doverose parole di circostanza e un paio di manifestazioni abbastanza partecipate, non c’è stata una vera levata di scudi. Ma non c’è stata, a essere sinceri, neanche su tagli molto gravi che colpivano l’universalità dei nostri addetti e soprattutto non c’è stato un vero collegamento tra quanto accade nel teatro italiano e quanto sta accadendo nel resto della società. Quale occasione migliore per saldare la nostra protesta e le nostre necessità con quanto sta accadendo nella scuola, nei musei, nelle università, negli istituti di ricerca e via via allargando il discorso, nei servizi sociali e nell’impianto produttivo del paese? Se questo tentativo non è stato fatto non è solo perché, come pensano molti, tutto sommato a una parte del teatro italiano stava bene questa “dismissione” o perché la reale e attuale vocazione dell’ente non si era definita con sufficiente chiarezza attraverso le vicende di una storia lunga ormai sessant’anni o perché il bilancio dell’ente non era difendibile; il tentativo non è stato fatto a mio giudizio perché la reazione della società italiana a quanto sta avvenendo è un misto di rassegnazione, di stanchezza, di attesa più o meno insofferente di una svolta che non si avvera mai. Ma ragionando in questo modo non ci si è accorti che con la “dismissione” dell’Eti si è aperta una diga da cui può passare di tutto: se si è abolito non un ente di stato, ma l’unico ente di stato di cui si era dotato il teatro italiano, è chiaro che il giorno dopo si possono abolire tranquillamente istituzioni meno radicate e abbandonare al loro destino enti privati che hanno come unica difesa il loro lavoro. Infatti per il 2011 si prevede un dimezzamento del Fus e, cosa che a me pare altrettanto grave, un taglio pesantissimo ai bilanci degli enti locali; provate a parlare con i sindaci di tutta Italia per capire cosa sta avvenendo a livello delle amministrazioni locali. Io non so se la chiusura dell’Eti era evitabile; so che hanno giocato contro questa atmosfera opaca, la lentezza, probabilmente necessaria, con cui l’ente si stava trasformando sotto una gestione più virtuosa delle precedenti, la stessa alienazione dei teatri che era il presupposto della trasformazione dell’ente ma non ha giovato alla sua conservazione, perfino alcune ripicche “politiche” che nel nostro paese non ci facciamo mai mancare. Per evitarla bisognava combattere con energia contro tutti questi fattori e avere un progetto chiaro sul futuro non solo dell’ente ma dell’intero sistema teatrale italiano. Mi sembra quindi che non fosse facile evitarla. A cose fatte, vorrei dire a delitto consumato, non è che di questa energia e di questa chiarezza di idee non c’è più bisogno. Se il teatro italiano vuol conservare un minimo di autorità per quando verranno tempi migliori (perché verranno, non c’è dubbio), deve trovare il coraggio di fare sistema e di dire, prima a se stesso che agli altri, di cosa ha bisogno: a mio giudizio di una proiezione verso l’Europa che non può che essere guidata da un organismo centrale; di una legislazione certa che fissi regole chiare e uguali per tutti, addetti ai lavori delle vecchie e delle nuove generazioni, istituzioni centrali e sistema delle autonomie; di una riorganizzazione del sistema distributivo, che è vecchio non nei suoi elementi terminali ma nella sua concezione; di un lavoro di promozione a tutto campo sul nostro pubblico, perché non possiamo vantarci di avere da oltre trent’anni lo stesso numero di spettatori, in presenza di una società che si è “spettacolarizzata” in tutte le sue forme. C’è lavoro non solo per un nuovo ente, ma per la nuova generazione che si sta affacciando al teatro.
Oggi, 27 marzo 2010, si celebra la Giornata Mondiale del Teatro. E' la prima volta per l'Italia. Nel resto del mondo invece succede già da 50 anni. Già questo meriterebbe una riflessione. Che valore ha, il Teatro, per il nostro paese? Che considerazione c'è per la nostra attività? Al di là degli impegni formali e delle dichiarazioni di intenti, poche e spesso dimenticate in fretta, vogliamo cogliere questa occasione per invitare tutti ad una riflessione più ampia cercando di inquadrare la condizione reale del nostro settore.
Quando parliamo di “teatro“ o di “spettacolo dal vivo” non stiamo parlando genericamente di “cultura” ma di oltre 4.000 aziende che occupano circa 250.000 addetti fra attori, registi, tecnici delle luci o della fonica, macchinisti, sarte, organizzatori, scenografi, costumisti, amministratori, cassiere, maschere di sala. 80.000 famiglie che vivono grazie al “teatro”. Come imprese dello spettacolo paghiamo ogni anno retribuzioni per circa 750 milioni di euro e contribuiamo alla ricchezza nazionale versando ogni anno nelle casse dello Stato circa 600 milioni di euro tra oneri pensionistici, assistenziali, INAIL, IRPEF e IRAP.
Un volume d'affari complessivo di 4,7 miliardi di euro all'anno.
Le imprese dello spettacolo realizzano ogni anno circa 138.000 repliche di spettacoli teatrali attraverso una rete di oltre 1.200 teatri, cioè 1.200 luoghi di lavoro cui si aggiungono quelli delle compagnie. A tutto questo va poi aggiunto l'indotto, e cioè le imprese di costruzione di scene, sartorie, noleggi di luci e fonica, trovarobato: altri 40.000 addetti con le loro famiglie.
Per avere un'idea dell'importanza e della grandezza del nostro settore basta confrontarlo, per esempio, con il settore manifatturiero, che esprime 15.000 aziende e circa 500.000 addetti (appena il doppio del nostro settore). Oppure confrontarlo con il settore della lavorazione dei metalli, dove nelle grandi e medie imprese sono occupati circa 250.000 addetti, esattamente quanti ne abbiamo nello spettacolo.
Ma il nostro settore vanta anche dei primati: è il più controllato sia dal punto di vista fiscale sia dal punto di vista della salvaguardia della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro. Abbiamo avuto l'obbligo di installazione dei misuratori fiscali che sono collegati telematicamente con l'Agenzia delle Entrate che ogni sera conosce esattamente quanto è stato incassato (nessun altro settore ha subito questa decisione). E per quanto riguarda la sicurezza sui luoghi di lavoro siamo l'unico settore considerato pericoloso come una acciaieria. Infatti i teatri, poiché sono considerati a MEDIO RISCHIO INCENDIO, sono soggetti alla medesima normativa e ai medesimi obblighi cui devono sottostare aziende come la Thyssenkrupp. E' così che nei teatri da oltre 500 posti avvengono situazioni paradossali come la presenza di due squadre antincendio, una dei vigili del fuoco e una interna del teatro, con dei costi giornalieri insostenibili.
Nonostante tutto questo le imprese dello spettacolo, non solo non sono state inserite in nessuna lista dei settori produttivi riferiti alle PMI che hanno beneficiato di aiuti economici anticrisi, ma anzi -proprio perché larghi settori della politica non le considerano un settore produttivo, e qualcuno addirittura le considera un sistema parassitario- hanno visto i progressivi tagli del già esiguo FUS e il dimezzamento dei contributi da parte degli Enti pubblici.
Tagliare senza un progetto di rilancio significa mettere a rischio tutte le realtà produttive.
Nel 2009 il nostro settore ha perso 30.000 posti di lavoro. 30.000 nuovi disoccupati che non hanno meno dignità dei metalmeccanici, siderurgici o manifatturieri.
Proprio per questo chiediamo non solo il ripristino delle risorse destinate allo spettacolo, ma soprattutto una profonda riforma del sistema e delle regole che lo governano per una distribuzione più equa e trasparente sia a livello centrale che periferico.
Chiediamo leggi che si fondino sul rispetto delle condizioni dei lavoratori, e che sappiano valorizzare le realtà artistiche e professionali, base imprescindibile di questo settore.
E' da oltre mezzo secolo che attendiamo una nuova legge. E non sappiamo quanti anni ancora passeranno prima di averne una. Ma la condizione di emergenza nella quale ci troviamo non ci permette di aspettare ancora. Pertanto chiediamo con forza l'applicazione di almeno due provvedimenti urgenti che possono essere inseriti già nella prossima finanziaria:
riconoscere le imprese di spettacolo come parte delle PMI e quindi permettere al nostro settore di usufruire degli aiuti anticrisi.
Ridurre l'aliquota IVA sugli introiti da botteghino e sulla vendita degli spettacoli dal 10% al 4%
La prima richiesta non necessita di copertura economica e per la seconda sarebbe sufficiente aumentare l'aliquota IVA dell'editoria pornografica dal 4% al 10%.
Se queste richieste urgenti non venissero accolte il Governo dovrà rendere conto non solo ai 30.000 disoccupati del nostro settore, ma anche a molti altri, che in massa si riverseranno, come mine vaganti, nel mondo del lavoro.
Chiediamo a voi di considerare questa battaglia anche una vostra battaglia.
Un paese che si rifiuta di investire nella cultura e nell’arte non risparmia ma diventa inevitabilmente più povero. Una comunità che va a teatro, al cinema, ai concerti e che legge, acquisisce sempre più strumenti per scegliere, partecipare e immaginare. E’ una comunità che si assume la responsabilità diretta della democrazia.
Forse l’arte non è la cosa più importante al mondo ma provate a immaginare un mondo senza arte.
OLTRE LA CRISI . Dieci considerazioni per il teatro privato italiano.
Dopo la riunione del 23 novembre, che ha segnato un primo punto di incontro delle diverse associazioni del teatro privato, vorrei provare a sottolineare i diversi livelli, comportamentali,normativi e più profondamente strutturali, del cambiamento a cui stiamo assistendo da qualche anno e che ci costringe ad uscire dalle nostre abitudini professionali e associative.
1)Il primo è quello della ormai famosa lettera del ministro Bondi. Per la prima volta dal dopoguerra un ministro della repubblica dichiara pubblicamente di essersi pentito di aver messo una toppa al Fus e di aver pensato a leggi per il settore; evidentemente il settore non merita né le une né l’altra, con la curiosa motivazione che è rancoroso e servile, troppo orientato politicamente e quindi non degno di interventi pubblici. E’ una rottura profonda del linguaggio istituzionale, che non per nulla si è cercato di rattoppare in qualche modo con lo spot di Letta in televisione. La lettera rivela, al di là delle espressioni gratuite e non degne di un ministro, una concezione premoderna del ruolo e del rapporto tra l’amministrazione pubblica e il nostro settore; qui non stiamo parlando di mecenatismo, che l’artista si deve meritare col suo comportamento, qui stiamo parlando di sistema industriale, di funzione sociale del lavoro artistico, di un’economia che contribuisce con i propri specifici mezzi al benessere collettivo. Che c’entra il servilismo, vero o supposto, degli artisti con tutto questo? Il sospetto che viene è che in realtà si mettano le mani avanti per una futura contrazione dell’intervento pubblico, utile per non entrare in rotta di collisione con Tremonti e anche per dare un monito a un personale artistico riottoso.
2)Inoltre, come tutti sanno, stiamo vivendo una delle peggiori annate dagli anni settanta a oggi, sia dal punto di vista normativo che dal punto di vista dell’economia reale. Abbiamo avuto le commissioni a novembre e per la prima volta nella storia del dopoguerra abbiamo fatto le domande per il 2010 senza sapere quanto ci era stato assegnato nel 2009. I comuni italiani, che sostengono gran parte delle nostre attività, dopo il taglio dell’Ici, unito alle lentezze dei trasferimenti e ai problemi del patto di stabilità, hanno visto aggravarsi la propria situazione di cassa. Il pubblico fa fatica a spendere, ci segue con la consueta generosità ma non aumenta, perché non siamo in grado di mettere in opera tutte quelle attività di promozione, nella scuola, nella società e nei media, che in una situazione sociale ed economica sfavorevole sarebbero necessarie ma sono anche costose.
3)La legge sul teatro, che viene ancora sbandierata dal ministro nella sua lettera, in realtà è a un punto morto, perché viene impallinata contemporaneamente dalle regioni e da alcune delle componenti politiche che l’hanno finora sostenuta. La conferenza delle regioni e delle province autonome ha scrittosei pagine di osservazioni sul testo della legge, che vale la pena di leggere con attenzione. Ma soprattutto è bloccato dal problema della copertura economica, che malgrado tutte le assicurazioni non è risolto. Come si può pensare infatti che ci sia copertura economica in una legge che non dispone neanche il passaggio del Fus dal capitolo spesa al capitolo investimento? Essendo diventata strada facendo uno zibaldone di tutto quello che si potrebbe fare nello spettacolo dal vivo, forse un suo ripensamento sarebbe anche opportuno, se non fosse che dentro quell’articolato ci sono molti interventi di carattere strutturale che noi abbiamo chiesto anche in altre sedi e che sono rimasti fermi in attesa dell’approvazione della legge; mi riferisco soprattutto ad alcuni provvedimenti di carattere fiscale, al riconoscimento del carattere di piccola e media impresa per le nostre attività, al tentativo di aprire una linea di credito agevolato. Tutto questo oggi non c’è e per la via della legislazione generale promette di non esserci per molto tempo. Forse bisognava insistere sul suggerimento che due anni fa abbiamo dato in commissione cultura della Camera, e cioè attivare piccoli canali legislativi sulle singole materie, in attesa di avere una legge quadro generale.
4)Il risultato è che ci troviamo ad affrontare una situazione in cui non abbiamo a nostro favore né il mercato, impoverito dalla crisi, né le forze politiche, che non hanno più una dottrina costante in materia, né gli enti locali, che sono assorbiti dai propri problemi di sostentamento e di riordino delle competenze, néleggi consolidate. Ecco perché la situazione di oggi è strutturalmente diversa da quelle che ci siamo trovati a vivere negli anni. Ecco perché dobbiamo anche noi dare un segno di discontinuità; in questa situazione, non ci dobbiamo aspettare niente che non derivi dalla nostra capacità di costringere gli interlocutori politici, economici, amministrativi a prendere atto non solo della nostra esistenza, ma della nostra volontà di raddrizzare la situazione. Ed è impensabile fare un lavoro di questo genere senza creare anche tra di noi consenso e una piattaforma comune.
5)La breve storia della legge Carlucci serve a farci capire la qualità diversa del lavoro che dobbiamo fare. Il punto di forza di questa legge, soprattutto agli occhi delle forze politiche, era il tentativo di creare uno snodo in cui stato e regioni potessero convivere e non confliggere. La descrizione del meccanismo elaborato dal legislatore, ancorchè piuttosto barocca, faceva presumere che ci fosse un accordo di fondo tra i vari livelli istituzionali della repubblica su come dividere le competenze. Invece alla prima verifica formale, vuoi che l’accordo non ci fosse, vuoi che sia stato smentito dalla parte regionale, ci siamo trovati con sei pagine di critiche da parte delle regioni che dicono chiaramente che con quel testo non si va lontani. Il punto è sempre quello politicamente più importante, cioè chi decide che cosa, chi ha competenza su che cosa, chi spende il denaro e per cosa.
6)Questo significa che oggi in Italia, che lo si voglia oppure no, che lo si giudichi una cosa sensata oppure no, il potere reale si è spostato e non risiede più unicamente nel governo e nel parlamento, ma per una parte nelle regioni e per un’altra nell’unione Europea. E quindi ogni sistema, ogni azione politica e sociale che prescinde da questa complessità è destinata ad arenarsi. Questo aspetto è per noi privati particolarmente rilevante, perché siamo per definizione meno istituzionali di altri settori e quindi meno protetti nel momento in cui si ristruttura l’ordinamento. Non è un caso, per esempio, che in alcune regioni, al momento di legiferare, si fa fatica a far passare il concetto che la norma regionale si deve occupare non solo delle istituzioni, non solo delle onlus e delle associazioni culturali, ma anche, vorrei dire soprattutto, del sistema delle imprese, che sono il tessuto connettivo del nostro mestiere. Mi sono studiato, recentemente, nove leggi regionali sullo spettacolo dal vivo, che tutelano evidentemente in primo luogo i propri organismi regionali e gli organismi pubblici cofinanziati dallo stato e dai comuni. Chi si preoccupa in questo momento di studiare il diverso comportamento nei confronti delle attività private e possibilmente di renderlo omogeneo da regione a regione? Questo è un problema del teatro privato, che non ha gli enti locali nei propri consigli di amministrazione e di conseguenza è da essi meno conosciuto.
7). Tutti quanti ricordiamo il sistema che abbiamo ereditato dalla generazione precedente allanostra, con un Eti che fungeva da agenzia pubblica su tutto il territorio nazionale e il ministero come unico erogatore di denaro pubblico. Tutto questo oggi non esiste più; il sistema organizzativo sul territorio si è fatto estremamente più complesso, tant’è vero che non c’è quasi compagnia italiana che non sconti delle difficoltà nuove e diverse nella distribuzione; le risorse, anche se si fa un gran parlare del Fus, sono cambiate; è stato calcolato che, dal 1990 ad oggi, per ogni euro di sovvenzione del Fus le imprese sono passate da 42 centesimi a 1,74euro di introito relativo aibiglietti del pubblico e ad altre forme di finanziamento privato; che, dove le risorse degli enti locali nel 1990 equivalevano a mala pena a quelle dello stato, oggi contano più di quattro volte quelle del Fus. Il Fus insomma, che è la croce e il feticcio di tutti i dibattiti sul finanziamento alla cultura, oggi conta per il 15% delle risorse totali, secondo i calcoli dei nostri economisti. Questo non vuol dire che dobbiamo abbandonarne la difesa; il Fus può essere il volano del sistema, anche perché è uno dei pochi strumenti che ha regole certe e codificate, che possono servire da matrice e da collegamento per tutte le altre; semplicemente vuol dire che lo si difende meglio se sappiamo collocarlo nel contesto reale e non in uno immaginario. Soprattutto vuol dire che il finanziamento dell’impresa culturale oggi va organizzato sui diversi fronti e che bisogna essere consapevoli che si sta creando un sistema complesso e con molte facce. Per esempio le risorse, che gli studiosi di economia ci dicono essere così rilevanti, debbono emergere alla luce del sole ed essere qualificate, perché attualmente sfuggono sia a una contabilizzazione minuziosa che soprattutto ai criteri di erogazioni certi, equi e di pubblico dominio. Il Fus ha molti difetti, ma ha una tradizione che ne difende in qualche modo la trasparenza; la spesa degli enti locali è molto più consistente, ma sfugge sia ai criteri certificati che alla trasparenza; i fondi europei, che sono certificati e trasparenti, sono spesso per la platea delle nostre imprese di difficile raggiungimento.
8)Quindi dobbiamo, soprattutto noi privati, imparare a organizzare un sistema complesso e multiforme di finanziamento delle nostre imprese; ed è qui che fa difetto la tradizionale e un po’ vecchia organizzazione delle nostre forze. Non si tratta infatti soltanto di avere una interlocuzione separata con i singoli livelli del sistema, comunale, regionale, statale, europeo; si tratta di avere la capacità di farli interloquire e interagire, di creare un sistema diverso, più complesso e partecipato. E’ impossibile, e qui vengo al punto, fare questo lavoro con lo strumento associativo che ognuno di noi si ritrova in mano. Non è un caso che, di fronte allo sfaldarsi del tradizionale sistema di riferimento stato – categorie, anche l’associazione tradizionale del teatro italiano abbia perso dei pezzi consistenti e si sia trovata in difficoltà. Non è un caso che sia per chi è rimasto dentro l’Agis che per chi ne è uscito, le cose siano mutate in modo significativo. Con la differenza che, per i settori più istituzionali, gli enti lirici e i teatri stabili pubblici, è relativamente semplice adeguarsi alla nuova realtà dei fatti, perché gli enti locali sono già presenti nei loro consigli di amministrazione e l’abitudine a frequentare l’Europa fa parte della loro tradizione di lavoro. Con tutto questo anche le organizzazioni associative di quei due settori hanno dovuto correre ai ripari, con più o meno fortuna. Le imprese del teatro privato, che sono nella più parte sconosciute a quei livelli istituzionali, non hanno saputo cogliere per tempo la novità della situazione e la loro relativa debolezza, sperando che l’assetto tradizionale in qualche modo le garantisse; il loro disagio si è tramutato più in una diaspora che in un programma di azione.
9)Contemporaneamente e grazie a questo sfaldamento si è persa ogni capacità di organizzare una influente linea sindacale, che è la sostanza prima di ogni formula associativa. Oggi ci troviamo con un panorama associativo frantumato e perciò più debole di prima. Quello che dobbiamo fare è creare i presupposti di un’azione comune, di uno scambio costante di informazioni e di esperienze, in modo che in tutte le sedi, malgrado la diversità delle voci, vengano fatte le stesse richieste e posti gli stessi problemi, in attesa di ricostruire una forte federazione di tutto il teatro privato. Per quanto riguarda l’Agis un passo avanti è stato fatto nel momento in cui si è cominciato a lavorare su un modello associativo che ricomponesse la frattura tra istanze territoriali e istanze nazionali; il passaggio è avvenuto nel momento in cui è stato deciso di inserire nel documento di riforma dell’Agis un articolo che dice, testualmente: “L’Agis si articola anche su base regionale. Tenuto conto che l’articolazione della repubblica per il processo di federalismo in atto si esprime attualmente in gran parte anche attraverso gli organismi regionali e locali, che investono ormai cospicue risorse, spesso superiori a quelle del Fus, nel settore del cinema e dello spettacolo dal vivo, si sostiene la possibilità di prevedere una articolazione anche su base regionale per i comparti o le associazioni nazionali che ne facciano richiesta. Di conseguenza si prevede la possibilità, anche in vista di una futura riorganizzazione dei settori, di una gestione autonoma e concordata delle quote ripartite tra sede nazionale e sedi regionali, laddove attive e operative.”
10)Che cosa vuol dire questo, in concreto? Che la parte del teatro privato che attualmente è associata all’Agis ha dato finalmente un segnale di cambiamento che vale non solo per i suoi associati, ma per tutto il teatro privato italiano; che le due associazioni esistenti devono trovare la forza di rifondarsi e di offrirsi come interlocutore interessante a quella parte che non è associata o ha ritenuto giusto associarsi in un modo diverso. Le caratteristiche del nuovo organismo dovrebbero essere la capacità di federare sia la produzione che l’esercizio privati, di conquistarsi una concreta autonomia gestionale in seno alla casa madre Agis, di avere un progetto sindacale evoluto, credibile e sviluppato nel tempo, senza il quale è inutile fare lavoro associativo; di avere un progetto territoriale che sostenga ed elabori le strategie nazionali.
Il ministro Bondi, quello che più di tutti gli altri dovrebbe avere a cuore e difendere il lavoro della gente dello spettacolo, si è preso la briga di scrivere a freddo una lettera per insultare i propri amministrati. Ora, lasciando perdere il fatto che è sempre cattiva politica quella di insultare i cittadini per cui si lavora, io credo che bisogna prendere sul serio e alla lettera quanto dicono gli altri, perché rivela non solo lo stato d’animo del momento, magari anche di legittimo disappunto, ma un non detto che ai miei occhi è la cosa più interessante. Quando il ministro si dichiara pentito “di aver previsto leggi che non contempleranno più l’accattonaggio dell’artista al politico” e “di aver reintegrato il Fus piuttosto che destinare quei fondi al patrimonio storico” dice due cose inesatte (perché tutte queste leggi per lo spettacolo dal vivo ancora non le abbiamo viste e perché il famoso reintegro è una toppa che lascia sempre il Fus mezzo azzoppato), ma soprattutto rivela una mentalità premoderna rispetto al ruolo che ricopre. Un ministro non è un mecenate che decide o non decide di fare elargizioni e Bondi non è papa Barberini che ha a che fare con uno stizzoso Bernini; un ministro moderno è o dovrebbe essere un uomo che si confronta col sistema produttivo di sua competenza, riconoscendogli dignità sociale e diritti e doveri adeguati. In altre parole il problema non è quello dell’elargizione, ma quello del riconoscimento di aver di fronte un sistema sociale appunto e non degli individui bisognosi. Il ministro Bondi, e il governo a cui appartiene, deve dire non se ritiene personalmente opportuno finanziare questo o quell’artista più o meno servile, ma se ritiene di avere a che fare con un settore produttivo adeguato alla società in cui viviamo. Io personalmente credo che gli artisti italiani dello spettacolo siano lavoratori socialmente utili, almeno tanto quanto quelli che questo governo ha finanziato così volentieri in Sicilia (Lsu siciliani, 100 milioni di euro); che essi facciano onore all’Italia nel mondo, da Ronconi a Tornatore a Muti al mio amico Francesco Zecca che nessuno ancora conosce ma che nondimeno è uno splendido attore; che gli artisti alle volte sono anche servili, perché sono più consapevoli di altri della precarietà della loro posizione, ma in compenso sanno regalare ai loro simili emozioni importanti per la loro esistenza e per la loro coesione sociale, cosa che non sempre la politica sa fare. Ma la vera questione, quella che è implicita nella lettera del ministro Bondi, è se questo governo è convinto o no di avere a che fare con un sistema produttivo e artistico adeguato e utile per il paese in cui viviamo: se pensa di no, lo dica chiaramente e affronti le conseguenze di questa sua convinzione. A meno che non sia tutto molto più semplice: il ministro sa di non avere le risorse per il 2010, mette le mani avanti e se la prende con noi anziché con Tremonti. E’ più facile e si fa prima.
Dopo la riunione del 23 novembre, che ha segnato un primo punto di incontro delle diverse associazioni del teatro privato, vorrei provare a sottolineare i diversi livelli, comportamentali, normativi e più profondamente strutturali, del cambiamento a cui stiamo assistendo da qualche anno e che ci costringe ad uscire dalle nostre abitudini professionali e associative.
1) Il primo è quello della ormai famosa lettera del ministro Bondi. Per la prima volta dal dopoguerra un ministro della repubblica dichiara pubblicamente di essersi pentito di aver messo una toppa al Fus e di aver pensato a leggi per il settore; evidentemente il settore non merita né le une né l’altra, con la curiosa motivazione che è rancoroso e servile, troppo orientato politicamente e quindi non degno di interventi pubblici. E’ una rottura profonda del linguaggio istituzionale, che non per nulla si è cercato di rattoppare in qualche modo con lo spot di Letta in televisione. La lettera rivela, al di là delle espressioni gratuite e non degne di un ministro, una concezione premoderna del ruolo e del rapporto tra l’amministrazione pubblica e il nostro settore; qui non stiamo parlando di mecenatismo, che l’artista si deve meritare col suo comportamento, qui stiamo parlando di sistema industriale, di funzione sociale del lavoro artistico, di un’economia che contribuisce con i propri specifici mezzi al benessere collettivo. Che c’entra il servilismo, vero o supposto, degli artisti con tutto questo? Il sospetto che viene è che in realtà si mettano le mani avanti per una futura contrazione dell’intervento pubblico, utile per non entrare in rotta di collisione con Tremonti e anche per dare un monito a un personale artistico riottoso. 2) Inoltre, come tutti sanno, stiamo vivendo una delle peggiori annate dagli anni settanta a oggi, sia dal punto di vista normativo che dal punto di vista dell’economia reale. Abbiamo avuto le commissioni a novembre e per la prima volta nella storia del dopoguerra abbiamo fatto le domande per il 2010 senza sapere quanto ci era stato assegnato nel 2009. I comuni italiani, che sostengono gran parte delle nostre attività, dopo il taglio dell’Ici, unito alle lentezze dei trasferimenti e ai problemi del patto di stabilità, hanno visto aggravarsi la propria situazione di cassa. Il pubblico fa fatica a spendere, ci segue con la consueta generosità ma non aumenta, perché non siamo in grado di mettere in opera tutte quelle attività di promozione, nella scuola, nella società e nei media, che in una situazione sociale ed economica sfavorevole sarebbero necessarie ma sono anche costose.
3) La legge sul teatro, che viene ancora sbandierata dal ministro nella sua lettera, in realtà è a un punto morto, perché viene impallinata contemporaneamente dalle regioni e da alcune delle componenti politiche che l’hanno finora sostenuta. La conferenza delle regioni e delle province autonome ha scritto sei pagine di osservazioni sul testo della legge, che vale la pena di leggere con attenzione. Ma soprattutto è bloccato dal problema della copertura economica, che malgrado tutte le assicurazioni non è risolto. Come si può pensare infatti che ci sia copertura economica in una legge che non dispone neanche il passaggio del Fus dal capitolo spesa al capitolo investimento? Essendo diventata strada facendo uno zibaldone di tutto quello che si potrebbe fare nello spettacolo dal vivo, forse un suo ripensamento sarebbe anche opportuno, se non fosse che dentro quell’articolato ci sono molti interventi di carattere strutturale che noi abbiamo chiesto anche in altre sedi e che sono rimasti fermi in attesa dell’approvazione della legge; mi riferisco soprattutto ad alcuni provvedimenti di carattere fiscale, al riconoscimento del carattere di piccola e media impresa per le nostre attività, al tentativo di aprire una linea di credito agevolato. Tutto questo oggi non c’è e per la via della legislazione generale promette di non esserci per molto tempo. Forse bisognava insistere sul suggerimento che due anni fa abbiamo dato in commissione cultura della Camera, e cioè attivare piccoli canali legislativi sulle singole materie, in attesa di avere una legge quadro generale. 4) Il risultato è che ci troviamo ad affrontare una situazione in cui non abbiamo a nostro favore né il mercato, impoverito dalla crisi, né le forze politiche, che non hanno più una dottrina costante in materia, né gli enti locali, che sono assorbiti dai propri problemi di sostentamento e di riordino delle competenze, né leggi consolidate. Ecco perché la situazione di oggi è strutturalmente diversa da quelle che ci siamo trovati a vivere negli anni. Ecco perché dobbiamo anche noi dare un segno di discontinuità; in questa situazione, non ci dobbiamo aspettare niente che non derivi dalla nostra capacità di costringere gli interlocutori politici, economici, amministrativi a prendere atto non solo della nostra esistenza, ma della nostra volontà di raddrizzare la situazione. Ed è impensabile fare un lavoro di questo genere senza creare anche tra di noi consenso e una piattaforma comune.
5) La breve storia della legge Carlucci serve a farci capire la qualità diversa del lavoro che dobbiamo fare. Il punto di forza di questa legge, soprattutto agli occhi delle forze politiche, era il tentativo di creare uno snodo in cui stato e regioni potessero convivere e non confliggere. La descrizione del meccanismo elaborato dal legislatore, ancorchè piuttosto barocca, faceva presumere che ci fosse un accordo di fondo tra i vari livelli istituzionali della repubblica su come dividere le competenze. Invece alla prima verifica formale, vuoi che l’accordo non ci fosse, vuoi che sia stato smentito dalla parte regionale, ci siamo trovati con sei pagine di critiche da parte delle regioni che dicono chiaramente che con quel testo non si va lontani. Il punto è sempre quello politicamente più importante, cioè chi decide che cosa, chi ha competenza su che cosa, chi spende il denaro e per cosa.
6) Questo significa che oggi in Italia, che lo si voglia oppure no, che lo si giudichi una cosa sensata oppure no, il potere reale si è spostato e non risiede più unicamente nel governo e nel parlamento, ma per una parte nelle regioni e per un’altra nell’unione Europea. E quindi ogni sistema, ogni azione politica e sociale che prescinde da questa complessità è destinata ad arenarsi. Questo aspetto è per noi privati particolarmente rilevante, perché siamo per definizione meno istituzionali di altri settori e quindi meno protetti nel momento in cui si ristruttura l’ordinamento. Non è un caso, per esempio, che in alcune regioni, al momento di legiferare, si fa fatica a far passare il concetto che la norma regionale si deve occupare non solo delle istituzioni, non solo delle onlus e delle associazioni culturali, ma anche, vorrei dire soprattutto, del sistema delle imprese, che sono il tessuto connettivo del nostro mestiere. Mi sono studiato, recentemente, nove leggi regionali sullo spettacolo dal vivo, che tutelano evidentemente in primo luogo i propri organismi regionali e gli organismi pubblici cofinanziati dallo stato e dai comuni. Chi si preoccupa in questo momento di studiare il diverso comportamento nei confronti delle attività private e possibilmente di renderlo omogeneo da regione a regione? Questo è un problema del teatro privato, che non ha gli enti locali nei propri consigli di amministrazione e di conseguenza è da essi meno conosciuto.
7) . Tutti quanti ricordiamo il sistema che abbiamo ereditato dalla generazione precedente alla nostra, con un Eti che fungeva da agenzia pubblica su tutto il territorio nazionale e il ministero come unico erogatore di denaro pubblico. Tutto questo oggi non esiste più; il sistema organizzativo sul territorio si è fatto estremamente più complesso, tant’è vero che non c’è quasi compagnia italiana che non sconti delle difficoltà nuove e diverse nella distribuzione; le risorse, anche se si fa un gran parlare del Fus, sono cambiate; è stato calcolato che, dal 1990 ad oggi, per ogni euro di sovvenzione del Fus le imprese sono passate da 42 centesimi a 1,74 euro di introito relativo ai biglietti del pubblico e ad altre forme di finanziamento privato; che, dove le risorse degli enti locali nel 1990 equivalevano a mala pena a quelle dello stato, oggi contano più di quattro volte quelle del Fus. Il Fus insomma, che è la croce e il feticcio di tutti i dibattiti sul finanziamento alla cultura, oggi conta per il 15% delle risorse totali, secondo i calcoli dei nostri economisti. Questo non vuol dire che dobbiamo abbandonarne la difesa; il Fus può essere il volano del sistema, anche perché è uno dei pochi strumenti che ha regole certe e codificate, che possono servire da matrice e da collegamento per tutte le altre; semplicemente vuol dire che lo si difende meglio se sappiamo collocarlo nel contesto reale e non in uno immaginario. Soprattutto vuol dire che il finanziamento dell’impresa culturale oggi va organizzato sui diversi fronti e che bisogna essere consapevoli che si sta creando un sistema complesso e con molte facce. Per esempio le risorse, che gli studiosi di economia ci dicono essere così rilevanti, debbono emergere alla luce del sole ed essere qualificate, perché attualmente sfuggono sia a una contabilizzazione minuziosa che soprattutto ai criteri di erogazioni certi, equi e di pubblico dominio. Il Fus ha molti difetti, ma ha una tradizione che ne difende in qualche modo la trasparenza; la spesa degli enti locali è molto più consistente, ma sfugge sia ai criteri certificati che alla trasparenza; i fondi europei, che sono certificati e trasparenti, sono spesso per la platea delle nostre imprese di difficile raggiungimento.
8) Quindi dobbiamo, soprattutto noi privati, imparare a organizzare un sistema complesso e multiforme di finanziamento delle nostre imprese; ed è qui che fa difetto la tradizionale e un po’ vecchia organizzazione delle nostre forze. Non si tratta infatti soltanto di avere una interlocuzione separata con i singoli livelli del sistema, comunale, regionale, statale, europeo; si tratta di avere la capacità di farli interloquire e interagire, di creare un sistema diverso, più complesso e partecipato. E’ impossibile, e qui vengo al punto, fare questo lavoro con lo strumento associativo che ognuno di noi si ritrova in mano. Non è un caso che, di fronte allo sfaldarsi del tradizionale sistema di riferimento stato – categorie, anche l’associazione tradizionale del teatro italiano abbia perso dei pezzi consistenti e si sia trovata in difficoltà. Non è un caso che sia per chi è rimasto dentro l’Agis che per chi ne è uscito, le cose siano mutate in modo significativo. Con la differenza che, per i settori più istituzionali, gli enti lirici e i teatri stabili pubblici, è relativamente semplice adeguarsi alla nuova realtà dei fatti, perché gli enti locali sono già presenti nei loro consigli di amministrazione e l’abitudine a frequentare l’Europa fa parte della loro tradizione di lavoro. Con tutto questo anche le organizzazioni associative di quei due settori hanno dovuto correre ai ripari, con più o meno fortuna. Le imprese del teatro privato, che sono nella più parte sconosciute a quei livelli istituzionali, non hanno saputo cogliere per tempo la novità della situazione e la loro relativa debolezza, sperando che l’assetto tradizionale in qualche modo le garantisse; il loro disagio si è tramutato più in una diaspora che in un programma di azione.
9) Contemporaneamente e grazie a questo sfaldamento si è persa ogni capacità di organizzare una influente linea sindacale, che è la sostanza prima di ogni formula associativa. Oggi ci troviamo con un panorama associativo frantumato e perciò più debole di prima. Quello che dobbiamo fare è creare i presupposti di un’azione comune, di uno scambio costante di informazioni e di esperienze, in modo che in tutte le sedi, malgrado la diversità delle voci, vengano fatte le stesse richieste e posti gli stessi problemi, in attesa di ricostruire una forte federazione di tutto il teatro privato. Per quanto riguarda l’Agis un passo avanti è stato fatto nel momento in cui si è cominciato a lavorare su un modello associativo che ricomponesse la frattura tra istanze territoriali e istanze nazionali; il passaggio è avvenuto nel momento in cui è stato deciso di inserire nel documento di riforma dell’Agis un articolo che dice, testualmente: “L’Agis si articola anche su base regionale. Tenuto conto che l’articolazione della repubblica per il processo di federalismo in atto si esprime attualmente in gran parte anche attraverso gli organismi regionali e locali, che investono ormai cospicue risorse, spesso superiori a quelle del Fus, nel settore del cinema e dello spettacolo dal vivo, si sostiene la possibilità di prevedere una articolazione anche su base regionale per i comparti o le associazioni nazionali che ne facciano richiesta. Di conseguenza si prevede la possibilità, anche in vista di una futura riorganizzazione dei settori, di una gestione autonoma e concordata delle quote ripartite tra sede nazionale e sedi regionali, laddove attive e operative.”
10) Che cosa vuol dire questo, in concreto? Che la parte del teatro privato che attualmente è associata all’Agis ha dato finalmente un segnale di cambiamento che vale non solo per i suoi associati, ma per tutto il teatro privato italiano; che le due associazioni esistenti devono trovare la forza di rifondarsi e di offrirsi come interlocutore interessante a quella parte che non è associata o ha ritenuto giusto associarsi in un modo diverso. Le caratteristiche del nuovo organismo dovrebbero essere la capacità di federare sia la produzione che l’esercizio privati, di conquistarsi una concreta autonomia gestionale in seno alla casa madre Agis, di avere un progetto sindacale evoluto, credibile e sviluppato nel tempo, senza il quale è inutile fare lavoro associativo; di avere un progetto territoriale che sostenga ed elabori le strategie nazionali.
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