venerdì 8 gennaio 2010

OLTRE LA CRISI . Dieci considerazioni per il teatro privato italiano.

OLTRE LA CRISI . Dieci considerazioni per il teatro privato italiano.

Dopo la riunione del 23 novembre, che ha segnato un primo punto di incontro delle diverse associazioni del teatro privato, vorrei provare a sottolineare i diversi livelli, comportamentali, normativi e più profondamente strutturali, del cambiamento a cui stiamo assistendo da qualche anno e che ci costringe ad uscire dalle nostre abitudini professionali e associative.

1) Il primo è quello della ormai famosa lettera del ministro Bondi. Per la prima volta dal dopoguerra un ministro della repubblica dichiara pubblicamente di essersi pentito di aver messo una toppa al Fus e di aver pensato a leggi per il settore; evidentemente il settore non merita né le une né l’altra, con la curiosa motivazione che è rancoroso e servile, troppo orientato politicamente e quindi non degno di interventi pubblici. E’ una rottura profonda del linguaggio istituzionale, che non per nulla si è cercato di rattoppare in qualche modo con lo spot di Letta in televisione. La lettera rivela, al di là delle espressioni gratuite e non degne di un ministro, una concezione premoderna del ruolo e del rapporto tra l’amministrazione pubblica e il nostro settore; qui non stiamo parlando di mecenatismo, che l’artista si deve meritare col suo comportamento, qui stiamo parlando di sistema industriale, di funzione sociale del lavoro artistico, di un’economia che contribuisce con i propri specifici mezzi al benessere collettivo. Che c’entra il servilismo, vero o supposto, degli artisti con tutto questo? Il sospetto che viene è che in realtà si mettano le mani avanti per una futura contrazione dell’intervento pubblico, utile per non entrare in rotta di collisione con Tremonti e anche per dare un monito a un personale artistico riottoso.

2) Inoltre, come tutti sanno, stiamo vivendo una delle peggiori annate dagli anni settanta a oggi, sia dal punto di vista normativo che dal punto di vista dell’economia reale. Abbiamo avuto le commissioni a novembre e per la prima volta nella storia del dopoguerra abbiamo fatto le domande per il 2010 senza sapere quanto ci era stato assegnato nel 2009. I comuni italiani, che sostengono gran parte delle nostre attività, dopo il taglio dell’Ici, unito alle lentezze dei trasferimenti e ai problemi del patto di stabilità, hanno visto aggravarsi la propria situazione di cassa. Il pubblico fa fatica a spendere, ci segue con la consueta generosità ma non aumenta, perché non siamo in grado di mettere in opera tutte quelle attività di promozione, nella scuola, nella società e nei media, che in una situazione sociale ed economica sfavorevole sarebbero necessarie ma sono anche costose.

3) La legge sul teatro, che viene ancora sbandierata dal ministro nella sua lettera, in realtà è a un punto morto, perché viene impallinata contemporaneamente dalle regioni e da alcune delle componenti politiche che l’hanno finora sostenuta. La conferenza delle regioni e delle province autonome ha scritto sei pagine di osservazioni sul testo della legge, che vale la pena di leggere con attenzione. Ma soprattutto è bloccato dal problema della copertura economica, che malgrado tutte le assicurazioni non è risolto. Come si può pensare infatti che ci sia copertura economica in una legge che non dispone neanche il passaggio del Fus dal capitolo spesa al capitolo investimento? Essendo diventata strada facendo uno zibaldone di tutto quello che si potrebbe fare nello spettacolo dal vivo, forse un suo ripensamento sarebbe anche opportuno, se non fosse che dentro quell’articolato ci sono molti interventi di carattere strutturale che noi abbiamo chiesto anche in altre sedi e che sono rimasti fermi in attesa dell’approvazione della legge; mi riferisco soprattutto ad alcuni provvedimenti di carattere fiscale, al riconoscimento del carattere di piccola e media impresa per le nostre attività, al tentativo di aprire una linea di credito agevolato. Tutto questo oggi non c’è e per la via della legislazione generale promette di non esserci per molto tempo. Forse bisognava insistere sul suggerimento che due anni fa abbiamo dato in commissione cultura della Camera, e cioè attivare piccoli canali legislativi sulle singole materie, in attesa di avere una legge quadro generale.

4) Il risultato è che ci troviamo ad affrontare una situazione in cui non abbiamo a nostro favore né il mercato, impoverito dalla crisi, né le forze politiche, che non hanno più una dottrina costante in materia, né gli enti locali, che sono assorbiti dai propri problemi di sostentamento e di riordino delle competenze, né leggi consolidate. Ecco perché la situazione di oggi è strutturalmente diversa da quelle che ci siamo trovati a vivere negli anni. Ecco perché dobbiamo anche noi dare un segno di discontinuità; in questa situazione, non ci dobbiamo aspettare niente che non derivi dalla nostra capacità di costringere gli interlocutori politici, economici, amministrativi a prendere atto non solo della nostra esistenza, ma della nostra volontà di raddrizzare la situazione. Ed è impensabile fare un lavoro di questo genere senza creare anche tra di noi consenso e una piattaforma comune.

5) La breve storia della legge Carlucci serve a farci capire la qualità diversa del lavoro che dobbiamo fare. Il punto di forza di questa legge, soprattutto agli occhi delle forze politiche, era il tentativo di creare uno snodo in cui stato e regioni potessero convivere e non confliggere. La descrizione del meccanismo elaborato dal legislatore, ancorchè piuttosto barocca, faceva presumere che ci fosse un accordo di fondo tra i vari livelli istituzionali della repubblica su come dividere le competenze. Invece alla prima verifica formale, vuoi che l’accordo non ci fosse, vuoi che sia stato smentito dalla parte regionale, ci siamo trovati con sei pagine di critiche da parte delle regioni che dicono chiaramente che con quel testo non si va lontani. Il punto è sempre quello politicamente più importante, cioè chi decide che cosa, chi ha competenza su che cosa, chi spende il denaro e per cosa.

6) Questo significa che oggi in Italia, che lo si voglia oppure no, che lo si giudichi una cosa sensata oppure no, il potere reale si è spostato e non risiede più unicamente nel governo e nel parlamento, ma per una parte nelle regioni e per un’altra nell’unione Europea. E quindi ogni sistema, ogni azione politica e sociale che prescinde da questa complessità è destinata ad arenarsi. Questo aspetto è per noi privati particolarmente rilevante, perché siamo per definizione meno istituzionali di altri settori e quindi meno protetti nel momento in cui si ristruttura l’ordinamento. Non è un caso, per esempio, che in alcune regioni, al momento di legiferare, si fa fatica a far passare il concetto che la norma regionale si deve occupare non solo delle istituzioni, non solo delle onlus e delle associazioni culturali, ma anche, vorrei dire soprattutto, del sistema delle imprese, che sono il tessuto connettivo del nostro mestiere. Mi sono studiato, recentemente, nove leggi regionali sullo spettacolo dal vivo, che tutelano evidentemente in primo luogo i propri organismi regionali e gli organismi pubblici cofinanziati dallo stato e dai comuni. Chi si preoccupa in questo momento di studiare il diverso comportamento nei confronti delle attività private e possibilmente di renderlo omogeneo da regione a regione? Questo è un problema del teatro privato, che non ha gli enti locali nei propri consigli di amministrazione e di conseguenza è da essi meno conosciuto.

7) . Tutti quanti ricordiamo il sistema che abbiamo ereditato dalla generazione precedente alla nostra, con un Eti che fungeva da agenzia pubblica su tutto il territorio nazionale e il ministero come unico erogatore di denaro pubblico. Tutto questo oggi non esiste più; il sistema organizzativo sul territorio si è fatto estremamente più complesso, tant’è vero che non c’è quasi compagnia italiana che non sconti delle difficoltà nuove e diverse nella distribuzione; le risorse, anche se si fa un gran parlare del Fus, sono cambiate; è stato calcolato che, dal 1990 ad oggi, per ogni euro di sovvenzione del Fus le imprese sono passate da 42 centesimi a 1,74 euro di introito relativo ai biglietti del pubblico e ad altre forme di finanziamento privato; che, dove le risorse degli enti locali nel 1990 equivalevano a mala pena a quelle dello stato, oggi contano più di quattro volte quelle del Fus. Il Fus insomma, che è la croce e il feticcio di tutti i dibattiti sul finanziamento alla cultura, oggi conta per il 15% delle risorse totali, secondo i calcoli dei nostri economisti. Questo non vuol dire che dobbiamo abbandonarne la difesa; il Fus può essere il volano del sistema, anche perché è uno dei pochi strumenti che ha regole certe e codificate, che possono servire da matrice e da collegamento per tutte le altre; semplicemente vuol dire che lo si difende meglio se sappiamo collocarlo nel contesto reale e non in uno immaginario. Soprattutto vuol dire che il finanziamento dell’impresa culturale oggi va organizzato sui diversi fronti e che bisogna essere consapevoli che si sta creando un sistema complesso e con molte facce. Per esempio le risorse, che gli studiosi di economia ci dicono essere così rilevanti, debbono emergere alla luce del sole ed essere qualificate, perché attualmente sfuggono sia a una contabilizzazione minuziosa che soprattutto ai criteri di erogazioni certi, equi e di pubblico dominio. Il Fus ha molti difetti, ma ha una tradizione che ne difende in qualche modo la trasparenza; la spesa degli enti locali è molto più consistente, ma sfugge sia ai criteri certificati che alla trasparenza; i fondi europei, che sono certificati e trasparenti, sono spesso per la platea delle nostre imprese di difficile raggiungimento.

8) Quindi dobbiamo, soprattutto noi privati, imparare a organizzare un sistema complesso e multiforme di finanziamento delle nostre imprese; ed è qui che fa difetto la tradizionale e un po’ vecchia organizzazione delle nostre forze. Non si tratta infatti soltanto di avere una interlocuzione separata con i singoli livelli del sistema, comunale, regionale, statale, europeo; si tratta di avere la capacità di farli interloquire e interagire, di creare un sistema diverso, più complesso e partecipato. E’ impossibile, e qui vengo al punto, fare questo lavoro con lo strumento associativo che ognuno di noi si ritrova in mano. Non è un caso che, di fronte allo sfaldarsi del tradizionale sistema di riferimento stato – categorie, anche l’associazione tradizionale del teatro italiano abbia perso dei pezzi consistenti e si sia trovata in difficoltà. Non è un caso che sia per chi è rimasto dentro l’Agis che per chi ne è uscito, le cose siano mutate in modo significativo. Con la differenza che, per i settori più istituzionali, gli enti lirici e i teatri stabili pubblici, è relativamente semplice adeguarsi alla nuova realtà dei fatti, perché gli enti locali sono già presenti nei loro consigli di amministrazione e l’abitudine a frequentare l’Europa fa parte della loro tradizione di lavoro. Con tutto questo anche le organizzazioni associative di quei due settori hanno dovuto correre ai ripari, con più o meno fortuna. Le imprese del teatro privato, che sono nella più parte sconosciute a quei livelli istituzionali, non hanno saputo cogliere per tempo la novità della situazione e la loro relativa debolezza, sperando che l’assetto tradizionale in qualche modo le garantisse; il loro disagio si è tramutato più in una diaspora che in un programma di azione.

9) Contemporaneamente e grazie a questo sfaldamento si è persa ogni capacità di organizzare una influente linea sindacale, che è la sostanza prima di ogni formula associativa. Oggi ci troviamo con un panorama associativo frantumato e perciò più debole di prima. Quello che dobbiamo fare è creare i presupposti di un’azione comune, di uno scambio costante di informazioni e di esperienze, in modo che in tutte le sedi, malgrado la diversità delle voci, vengano fatte le stesse richieste e posti gli stessi problemi, in attesa di ricostruire una forte federazione di tutto il teatro privato. Per quanto riguarda l’Agis un passo avanti è stato fatto nel momento in cui si è cominciato a lavorare su un modello associativo che ricomponesse la frattura tra istanze territoriali e istanze nazionali; il passaggio è avvenuto nel momento in cui è stato deciso di inserire nel documento di riforma dell’Agis un articolo che dice, testualmente: “L’Agis si articola anche su base regionale. Tenuto conto che l’articolazione della repubblica per il processo di federalismo in atto si esprime attualmente in gran parte anche attraverso gli organismi regionali e locali, che investono ormai cospicue risorse, spesso superiori a quelle del Fus, nel settore del cinema e dello spettacolo dal vivo, si sostiene la possibilità di prevedere una articolazione anche su base regionale per i comparti o le associazioni nazionali che ne facciano richiesta. Di conseguenza si prevede la possibilità, anche in vista di una futura riorganizzazione dei settori, di una gestione autonoma e concordata delle quote ripartite tra sede nazionale e sedi regionali, laddove attive e operative.”

10) Che cosa vuol dire questo, in concreto? Che la parte del teatro privato che attualmente è associata all’Agis ha dato finalmente un segnale di cambiamento che vale non solo per i suoi associati, ma per tutto il teatro privato italiano; che le due associazioni esistenti devono trovare la forza di rifondarsi e di offrirsi come interlocutore interessante a quella parte che non è associata o ha ritenuto giusto associarsi in un modo diverso. Le caratteristiche del nuovo organismo dovrebbero essere la capacità di federare sia la produzione che l’esercizio privati, di conquistarsi una concreta autonomia gestionale in seno alla casa madre Agis, di avere un progetto sindacale evoluto, credibile e sviluppato nel tempo, senza il quale è inutile fare lavoro associativo; di avere un progetto territoriale che sostenga ed elabori le strategie nazionali.

Siamo tutti farabutti. Seconda parte 16.11.09

Il ministro Bondi, quello che più di tutti gli altri dovrebbe avere a cuore e difendere il lavoro della gente dello spettacolo, si è preso la briga di scrivere a freddo una lettera per insultare i propri amministrati. Ora, lasciando perdere il fatto che è sempre cattiva politica quella di insultare i cittadini per cui si lavora, io credo che bisogna prendere sul serio e alla lettera quanto dicono gli altri, perché rivela non solo lo stato d’animo del momento, magari anche di legittimo disappunto, ma un non detto che ai miei occhi è la cosa più interessante. Quando il ministro si dichiara pentito “di aver previsto leggi che non contempleranno più l’accattonaggio dell’artista al politico” e “di aver reintegrato il Fus piuttosto che destinare quei fondi al patrimonio storico” dice due cose inesatte (perché tutte queste leggi per lo spettacolo dal vivo ancora non le abbiamo viste e perché il famoso reintegro è una toppa che lascia sempre il Fus mezzo azzoppato), ma soprattutto rivela una mentalità premoderna rispetto al ruolo che ricopre. Un ministro non è un mecenate che decide o non decide di fare elargizioni e Bondi non è papa Barberini che ha a che fare con uno stizzoso Bernini; un ministro moderno è o dovrebbe essere un uomo che si confronta col sistema produttivo di sua competenza, riconoscendogli dignità sociale e diritti e doveri adeguati. In altre parole il problema non è quello dell’elargizione, ma quello del riconoscimento di aver di fronte un sistema sociale appunto e non degli individui bisognosi. Il ministro Bondi, e il governo a cui appartiene, deve dire non se ritiene personalmente opportuno finanziare questo o quell’artista più o meno servile, ma se ritiene di avere a che fare con un settore produttivo adeguato alla società in cui viviamo. Io personalmente credo che gli artisti italiani dello spettacolo siano lavoratori socialmente utili, almeno tanto quanto quelli che questo governo ha finanziato così volentieri in Sicilia (Lsu siciliani, 100 milioni di euro); che essi facciano onore all’Italia nel mondo, da Ronconi a Tornatore a Muti al mio amico Francesco Zecca che nessuno ancora conosce ma che nondimeno è uno splendido attore; che gli artisti alle volte sono anche servili, perché sono più consapevoli di altri della precarietà della loro posizione, ma in compenso sanno regalare ai loro simili emozioni importanti per la loro esistenza e per la loro coesione sociale, cosa che non sempre la politica sa fare. Ma la vera questione, quella che è implicita nella lettera del ministro Bondi, è se questo governo è convinto o no di avere a che fare con un sistema produttivo e artistico adeguato e utile per il paese in cui viviamo: se pensa di no, lo dica chiaramente e affronti le conseguenze di questa sua convinzione.
A meno che non sia tutto molto più semplice: il ministro sa di non avere le risorse per il 2010, mette le mani avanti e se la prende con noi anziché con Tremonti. E’ più facile e si fa prima.

OLTRE LA CRISI . Dieci considerazioni per il teatro privato italiano.

Dopo la riunione del 23 novembre, che ha segnato un primo punto di incontro delle diverse associazioni del teatro privato, vorrei provare a sottolineare i diversi livelli, comportamentali, normativi e più profondamente strutturali, del cambiamento a cui stiamo assistendo da qualche anno e che ci costringe ad uscire dalle nostre abitudini professionali e associative.

1) Il primo è quello della ormai famosa lettera del ministro Bondi. Per la prima volta dal dopoguerra un ministro della repubblica dichiara pubblicamente di essersi pentito di aver messo una toppa al Fus e di aver pensato a leggi per il settore; evidentemente il settore non merita né le une né l’altra, con la curiosa motivazione che è rancoroso e servile, troppo orientato politicamente e quindi non degno di interventi pubblici. E’ una rottura profonda del linguaggio istituzionale, che non per nulla si è cercato di rattoppare in qualche modo con lo spot di Letta in televisione. La lettera rivela, al di là delle espressioni gratuite e non degne di un ministro, una concezione premoderna del ruolo e del rapporto tra l’amministrazione pubblica e il nostro settore; qui non stiamo parlando di mecenatismo, che l’artista si deve meritare col suo comportamento, qui stiamo parlando di sistema industriale, di funzione sociale del lavoro artistico, di un’economia che contribuisce con i propri specifici mezzi al benessere collettivo. Che c’entra il servilismo, vero o supposto, degli artisti con tutto questo? Il sospetto che viene è che in realtà si mettano le mani avanti per una futura contrazione dell’intervento pubblico, utile per non entrare in rotta di collisione con Tremonti e anche per dare un monito a un personale artistico riottoso.
2) Inoltre, come tutti sanno, stiamo vivendo una delle peggiori annate dagli anni settanta a oggi, sia dal punto di vista normativo che dal punto di vista dell’economia reale. Abbiamo avuto le commissioni a novembre e per la prima volta nella storia del dopoguerra abbiamo fatto le domande per il 2010 senza sapere quanto ci era stato assegnato nel 2009. I comuni italiani, che sostengono gran parte delle nostre attività, dopo il taglio dell’Ici, unito alle lentezze dei trasferimenti e ai problemi del patto di stabilità, hanno visto aggravarsi la propria situazione di cassa. Il pubblico fa fatica a spendere, ci segue con la consueta generosità ma non aumenta, perché non siamo in grado di mettere in opera tutte quelle attività di promozione, nella scuola, nella società e nei media, che in una situazione sociale ed economica sfavorevole sarebbero necessarie ma sono anche costose.

3) La legge sul teatro, che viene ancora sbandierata dal ministro nella sua lettera, in realtà è a un punto morto, perché viene impallinata contemporaneamente dalle regioni e da alcune delle componenti politiche che l’hanno finora sostenuta. La conferenza delle regioni e delle province autonome ha scritto sei pagine di osservazioni sul testo della legge, che vale la pena di leggere con attenzione. Ma soprattutto è bloccato dal problema della copertura economica, che malgrado tutte le assicurazioni non è risolto. Come si può pensare infatti che ci sia copertura economica in una legge che non dispone neanche il passaggio del Fus dal capitolo spesa al capitolo investimento? Essendo diventata strada facendo uno zibaldone di tutto quello che si potrebbe fare nello spettacolo dal vivo, forse un suo ripensamento sarebbe anche opportuno, se non fosse che dentro quell’articolato ci sono molti interventi di carattere strutturale che noi abbiamo chiesto anche in altre sedi e che sono rimasti fermi in attesa dell’approvazione della legge; mi riferisco soprattutto ad alcuni provvedimenti di carattere fiscale, al riconoscimento del carattere di piccola e media impresa per le nostre attività, al tentativo di aprire una linea di credito agevolato. Tutto questo oggi non c’è e per la via della legislazione generale promette di non esserci per molto tempo. Forse bisognava insistere sul suggerimento che due anni fa abbiamo dato in commissione cultura della Camera, e cioè attivare piccoli canali legislativi sulle singole materie, in attesa di avere una legge quadro generale.
4) Il risultato è che ci troviamo ad affrontare una situazione in cui non abbiamo a nostro favore né il mercato, impoverito dalla crisi, né le forze politiche, che non hanno più una dottrina costante in materia, né gli enti locali, che sono assorbiti dai propri problemi di sostentamento e di riordino delle competenze, né leggi consolidate. Ecco perché la situazione di oggi è strutturalmente diversa da quelle che ci siamo trovati a vivere negli anni. Ecco perché dobbiamo anche noi dare un segno di discontinuità; in questa situazione, non ci dobbiamo aspettare niente che non derivi dalla nostra capacità di costringere gli interlocutori politici, economici, amministrativi a prendere atto non solo della nostra esistenza, ma della nostra volontà di raddrizzare la situazione. Ed è impensabile fare un lavoro di questo genere senza creare anche tra di noi consenso e una piattaforma comune.

5) La breve storia della legge Carlucci serve a farci capire la qualità diversa del lavoro che dobbiamo fare. Il punto di forza di questa legge, soprattutto agli occhi delle forze politiche, era il tentativo di creare uno snodo in cui stato e regioni potessero convivere e non confliggere. La descrizione del meccanismo elaborato dal legislatore, ancorchè piuttosto barocca, faceva presumere che ci fosse un accordo di fondo tra i vari livelli istituzionali della repubblica su come dividere le competenze. Invece alla prima verifica formale, vuoi che l’accordo non ci fosse, vuoi che sia stato smentito dalla parte regionale, ci siamo trovati con sei pagine di critiche da parte delle regioni che dicono chiaramente che con quel testo non si va lontani. Il punto è sempre quello politicamente più importante, cioè chi decide che cosa, chi ha competenza su che cosa, chi spende il denaro e per cosa.

6) Questo significa che oggi in Italia, che lo si voglia oppure no, che lo si giudichi una cosa sensata oppure no, il potere reale si è spostato e non risiede più unicamente nel governo e nel parlamento, ma per una parte nelle regioni e per un’altra nell’unione Europea. E quindi ogni sistema, ogni azione politica e sociale che prescinde da questa complessità è destinata ad arenarsi. Questo aspetto è per noi privati particolarmente rilevante, perché siamo per definizione meno istituzionali di altri settori e quindi meno protetti nel momento in cui si ristruttura l’ordinamento. Non è un caso, per esempio, che in alcune regioni, al momento di legiferare, si fa fatica a far passare il concetto che la norma regionale si deve occupare non solo delle istituzioni, non solo delle onlus e delle associazioni culturali, ma anche, vorrei dire soprattutto, del sistema delle imprese, che sono il tessuto connettivo del nostro mestiere. Mi sono studiato, recentemente, nove leggi regionali sullo spettacolo dal vivo, che tutelano evidentemente in primo luogo i propri organismi regionali e gli organismi pubblici cofinanziati dallo stato e dai comuni. Chi si preoccupa in questo momento di studiare il diverso comportamento nei confronti delle attività private e possibilmente di renderlo omogeneo da regione a regione? Questo è un problema del teatro privato, che non ha gli enti locali nei propri consigli di amministrazione e di conseguenza è da essi meno conosciuto.

7) . Tutti quanti ricordiamo il sistema che abbiamo ereditato dalla generazione precedente alla nostra, con un Eti che fungeva da agenzia pubblica su tutto il territorio nazionale e il ministero come unico erogatore di denaro pubblico. Tutto questo oggi non esiste più; il sistema organizzativo sul territorio si è fatto estremamente più complesso, tant’è vero che non c’è quasi compagnia italiana che non sconti delle difficoltà nuove e diverse nella distribuzione; le risorse, anche se si fa un gran parlare del Fus, sono cambiate; è stato calcolato che, dal 1990 ad oggi, per ogni euro di sovvenzione del Fus le imprese sono passate da 42 centesimi a 1,74 euro di introito relativo ai biglietti del pubblico e ad altre forme di finanziamento privato; che, dove le risorse degli enti locali nel 1990 equivalevano a mala pena a quelle dello stato, oggi contano più di quattro volte quelle del Fus. Il Fus insomma, che è la croce e il feticcio di tutti i dibattiti sul finanziamento alla cultura, oggi conta per il 15% delle risorse totali, secondo i calcoli dei nostri economisti. Questo non vuol dire che dobbiamo abbandonarne la difesa; il Fus può essere il volano del sistema, anche perché è uno dei pochi strumenti che ha regole certe e codificate, che possono servire da matrice e da collegamento per tutte le altre; semplicemente vuol dire che lo si difende meglio se sappiamo collocarlo nel contesto reale e non in uno immaginario. Soprattutto vuol dire che il finanziamento dell’impresa culturale oggi va organizzato sui diversi fronti e che bisogna essere consapevoli che si sta creando un sistema complesso e con molte facce. Per esempio le risorse, che gli studiosi di economia ci dicono essere così rilevanti, debbono emergere alla luce del sole ed essere qualificate, perché attualmente sfuggono sia a una contabilizzazione minuziosa che soprattutto ai criteri di erogazioni certi, equi e di pubblico dominio. Il Fus ha molti difetti, ma ha una tradizione che ne difende in qualche modo la trasparenza; la spesa degli enti locali è molto più consistente, ma sfugge sia ai criteri certificati che alla trasparenza; i fondi europei, che sono certificati e trasparenti, sono spesso per la platea delle nostre imprese di difficile raggiungimento.

8) Quindi dobbiamo, soprattutto noi privati, imparare a organizzare un sistema complesso e multiforme di finanziamento delle nostre imprese; ed è qui che fa difetto la tradizionale e un po’ vecchia organizzazione delle nostre forze. Non si tratta infatti soltanto di avere una interlocuzione separata con i singoli livelli del sistema, comunale, regionale, statale, europeo; si tratta di avere la capacità di farli interloquire e interagire, di creare un sistema diverso, più complesso e partecipato. E’ impossibile, e qui vengo al punto, fare questo lavoro con lo strumento associativo che ognuno di noi si ritrova in mano. Non è un caso che, di fronte allo sfaldarsi del tradizionale sistema di riferimento stato – categorie, anche l’associazione tradizionale del teatro italiano abbia perso dei pezzi consistenti e si sia trovata in difficoltà. Non è un caso che sia per chi è rimasto dentro l’Agis che per chi ne è uscito, le cose siano mutate in modo significativo. Con la differenza che, per i settori più istituzionali, gli enti lirici e i teatri stabili pubblici, è relativamente semplice adeguarsi alla nuova realtà dei fatti, perché gli enti locali sono già presenti nei loro consigli di amministrazione e l’abitudine a frequentare l’Europa fa parte della loro tradizione di lavoro. Con tutto questo anche le organizzazioni associative di quei due settori hanno dovuto correre ai ripari, con più o meno fortuna. Le imprese del teatro privato, che sono nella più parte sconosciute a quei livelli istituzionali, non hanno saputo cogliere per tempo la novità della situazione e la loro relativa debolezza, sperando che l’assetto tradizionale in qualche modo le garantisse; il loro disagio si è tramutato più in una diaspora che in un programma di azione.

9) Contemporaneamente e grazie a questo sfaldamento si è persa ogni capacità di organizzare una influente linea sindacale, che è la sostanza prima di ogni formula associativa. Oggi ci troviamo con un panorama associativo frantumato e perciò più debole di prima. Quello che dobbiamo fare è creare i presupposti di un’azione comune, di uno scambio costante di informazioni e di esperienze, in modo che in tutte le sedi, malgrado la diversità delle voci, vengano fatte le stesse richieste e posti gli stessi problemi, in attesa di ricostruire una forte federazione di tutto il teatro privato. Per quanto riguarda l’Agis un passo avanti è stato fatto nel momento in cui si è cominciato a lavorare su un modello associativo che ricomponesse la frattura tra istanze territoriali e istanze nazionali; il passaggio è avvenuto nel momento in cui è stato deciso di inserire nel documento di riforma dell’Agis un articolo che dice, testualmente: “L’Agis si articola anche su base regionale. Tenuto conto che l’articolazione della repubblica per il processo di federalismo in atto si esprime attualmente in gran parte anche attraverso gli organismi regionali e locali, che investono ormai cospicue risorse, spesso superiori a quelle del Fus, nel settore del cinema e dello spettacolo dal vivo, si sostiene la possibilità di prevedere una articolazione anche su base regionale per i comparti o le associazioni nazionali che ne facciano richiesta. Di conseguenza si prevede la possibilità, anche in vista di una futura riorganizzazione dei settori, di una gestione autonoma e concordata delle quote ripartite tra sede nazionale e sedi regionali, laddove attive e operative.”

10) Che cosa vuol dire questo, in concreto? Che la parte del teatro privato che attualmente è associata all’Agis ha dato finalmente un segnale di cambiamento che vale non solo per i suoi associati, ma per tutto il teatro privato italiano; che le due associazioni esistenti devono trovare la forza di rifondarsi e di offrirsi come interlocutore interessante a quella parte che non è associata o ha ritenuto giusto associarsi in un modo diverso. Le caratteristiche del nuovo organismo dovrebbero essere la capacità di federare sia la produzione che l’esercizio privati, di conquistarsi una concreta autonomia gestionale in seno alla casa madre Agis, di avere un progetto sindacale evoluto, credibile e sviluppato nel tempo, senza il quale è inutile fare lavoro associativo; di avere un progetto territoriale che sostenga ed elabori le strategie nazionali.