venerdì 18 settembre 2009

Siamo tutti farabutti


Sono convinto che dobbiamo essere riconoscenti al ministro Brunetta, perché finalmente qualcuno dell’attuale classe dirigente ci ha detto cosa pensa di noi e ci ha dimostrato quello che dentro di noi abbiamo sempre saputo, cioè che in questi anni si è fatto un uso “punitivo” del Fus, per tenere a bada una categoria di persone che ancora non si sono volute adeguare e che quindi risultano estranee, prima ancora che a un indirizzo politico, a un modo di essere e di pensare.

E’ isolato, Brunetta, in questo atteggiamento? Apparentemente sì, perché ministro e sottosegretario ai Beni Culturali hanno preso le distanze; nella sostanza io penso di no, perché attorno alla miserabile questione del Fus si è giocata in questi mesi una partita sotterranea piuttosto dura e non è detto che alla fine prevalga la linea di quelli che vogliono conservare un rapporto decente tra la società dello spettacolo e l’attuale governo. Quando il sottosegretario Giro dice, in una conferenza stampa a Venezia, che il Governo spende e quindi vuol contare di più (l’ho sentito con le mie orecchie), non esprime forse in toni più pacati lo stesso tipo di pressione che Brunetta esprime in toni più villani? E la lettera di Bondi al Corriere non trasuda, forse involontariamente, lo stesso disprezzo e lo stesso disagio di Brunetta? E gli attacchi quotidiani del Presidente del Consiglio non tendono a farci sentire tutti ugualmente “farabutti”?

Il ministro Brunetta, passata la sfuriata provocatoria, passa poi a precisare che in realtà lui pensa che sia bene liberare la cultura dello spettacolo, da sempre asservita alla sinistra, dalle ingerenze della politica. Se ci fosse un solo segno in questa direzione, staremmo tutti ad applaudirlo; ma forse Brunetta dimentica che se ci sono sprechi, nel mondo dello spettacolo, sono quasi tutti ascrivibili all’impadronimento quotidiano che la politica, di destra e di sinistra, fa del nostro settore per crearsi un’area di consenso. Gli sprechi ci sono negli enti lirici, è vero, ma non sarà che il personale di quegli enti è ipertrofico e sovra pagato perché negli anni si è creato un sistema di clientele che nulla aveva a che fare con la buona gestione aziendale? E’ solo colpa degli artisti e dei sovrintendenti o magari c’entrano anche i sindacati di destra e di sinistra, i partiti politici di destra e di sinistra, i sindaci, i presidenti di regione e compagnia cantando? E’ un caso che nel teatro di prosa, il più virtuoso forse dei settori dello spettacolo, man mano che ci si avvicina alla gestione pubblica e condizionata dalle scelte politiche la virtù evapora? E infine nel cinema, che viene additato come il sistema più scandaloso perché in realtà è percepito come il più pericoloso, cosa ha fatto questa classe dirigente, nei cinque anni di governo ininterrotto, per rimediare alle evidenti storture che ora vengono denunciate?
Gli sprechi ci sono, ma non è un buon motivo per mortificare un intero settore dell’industria culturale; sarebbe come dire che, siccome la politica molto spreca, la sua presenza e la sua funzione andrebbero annullate nel nostro paese. Gli sprechi ci sono, ma ci sarebbero anche, in attesa di leggi che la politica non riesce a definire, norme e automatismi che permettono comportamenti un pochino più virtuosi; guarda caso, queste norme e questi automatismi sono rimasti sempre parzialmente applicati, perché si è voluto favorire il rapporto diretto tra la gestione politica e la conduzione artistica e aziendale delle imprese dello spettacolo. Come mai i giornali fanno scandalo, giustamente, di film che hanno incamerato molto dalla mano pubblica e incassato poco al botteghino, e nessuno ha citato, scelgo tra mille casi, la delibera varata dal Consiglio Comunale di Roma il 12 di agosto, in cui si stanziavano due milioni e mezzo di euro per attività folcloristiche e culturali non meglio precisate, erogate a 72 associazioni che hanno fatto tutte domanda nello stesso giorno, il 16 di marzo?
Mi rendo conto che rinfacciandosi i singoli, anche se clamorosi, episodi non si va lontano, ma un punto da cui ripartire bisogna pur trovarlo: ed è il riconoscimento che il sistema culturale di un paese moderno è una questione complessa e delicata, che ha bisogno dell’apporto economico della comunità e dell’ingegno, dei capitali e del lavoro dei singoli; che lo snodo tra esigenze della collettività e attività dei singoli artisti è ancor più delicato, perché prevede dei punti di raccordo e dei momenti di estrema autonomia. In altre parole, la difficoltà è definire quanto sia necessario e coinvolgente il rapporto tra l’arte, la cultura in generale e la sua collettività di riferimento, anche politica, e quanto l’artista debba essere poi autonomo da condizionamenti e libero di inventare e criticare a beneficio di tutta la collettività. Su queste basi si può anche andare a braccetto con Brunetta.

mercoledì 16 settembre 2009

"La Strada" tre volte vincitore alla VII edizione del Premio Eti - Gli Olimpici del Teatro

Venerdì 11 settembre si è tenuta al Teatro Olimpico di Vicenza la cerimonia per la consegna dei premi ETI – Gli Olimpici del teatro.

La Contemporanea, con lo spettacolo LA STRADA diretto da Massimo Venturiello, ha vinto tutti e tre i premi per cui era stata candidata lo scorso 15 giugno:
- Premio per il miglior spettacolo musicale, consegnato a Massimo Venturiello;
- Premio per il migliore autore di musiche, consegnato a Germano Mazzocchetti;
- Premio per i migliori costumi, consegnato a Sabrina Chiocchio.


Questi premi confermano l’esito che lo spettacolo ha raccolto sul campo, nei teatri di tutta Italia; confortano chi ha lavorato per la sua realizzazione, tecnici e artisti; ci conferma, ed è per noi particolarmente piacevole, la stima che i colleghi e in genere tutto il mondo dello spettacolo ci hanno espresso nel corso di questo anno.

Ringraziamo per tutto questo Massimo Venturiello e Tosca che hanno lavorato con fantasia e passione allo spettacolo, Germano Mazzocchetti e Sabrina Chiocchio, che hanno meritatamente conquistato il loro premio, Alessandro Chiti, Fabrizio Angelini, Iuraj Saleri e tutti i nostri attori e tecnici; ringraziamo le giurie del Premio Eti - Gli Olimpici del Teatro, i direttori dei teatri che hanno accolto o accoglieranno il nostro spettacolo, il pubblico che ci ha sostenuto e che è la vera e sostanziale ragione del nostro lavoro.

Lo spettacolo continua, si dice, e infatti “LA STRADA” riprenderà il suo cammino il 17 gennaio a Civitavecchia, per finire il 31 maggio al Teatro Manzoni di Milano: siamo sicuri che il consenso e l’attenzione cresceranno con il passare delle repliche.

venerdì 19 giugno 2009

LA STRADA : 3 candidature per il "Premio ETI - Gli Olimpici del Teatro"



lunedì 15 giugno 2009


Al Teatro Valle di Roma, la giuria presieduta da Gianni Letta ha assegnato al nostro spettacolo LA STRADA con Massimo Venturiello e Tosca tre candidature al "Premio ETI - Gli Olimpici del Teatro", rispettivamente per:

1) Migliore commedia musicale originale
2) Migliore autore di musiche
3) Miglior costumi.


Ringraziamo Massimo Venturiello e Tosca che hanno lavorato con passione allo spettacolo, ringraziamo tutti i nostri attori e tecnici, ringraziamo la giuria del Premio Eti - Gli Olimpici del Teatro, i direttori dei teatri che hanno accolto o accoglieranno il nostro spettacolo e diamo appuntamento a tutti gli amici per la serata finale al Teatro Olimpico di Vicenza, l\'11 settembre 2009.

Sergio Fantoni e Fioravante Cozzaglio

martedì 3 marzo 2009

"La Commedia di Candido" a Monfalcone.

Proponiamo due recenti articoli a commento del nostro spettacolo "La Commedia di Candido".
Per maggiori informazioni www.lacontemporanea.com

IL PICCOLO

Sabato 28 febbraio 2009
Roberto Canziani
Ottavia Piccolo, la vera amica dei filosofi.
Diverte la “Commedia di Candido”, grazie anche alla regia di Sergio Fantoni

Qualche anno fa, era arrivata al Comunale con le ventate di una commedia spiritosa, in cui era protagonista assieme al filosofo Diderot. Ottavia Piccolo è tornata adesso a Monfalcone. Ha cambiato ovviamante commedia, ma si è tenuta il filosofo. Anzi, ne ha aggiunti altri tre stavolta. Accanto a Diderot, anche Voltaire, Rousseau e D’Alembert.

“La commedia di Candido” è in nuovo, divertentissimo lavoro teatrale, che fa davvero di Ottavia Piccolo …l’amica dei filosofi. Regista è Sergio Fantoni, a scrivere il testo è stato il trentaquattrenne pluripremiato Stefano Massini. Approfittando del fatto che saranno presto 250 anni da quando Voltaire scrisse “Candido” , un libro in cui il pensatore se la prendeva veramente con tutti – i colleghi filosofi, l’arroganza dei militari, l’ipocrisia degli uomini di Chiesa – Massini si è divertito a inventare un congegno che porta in palcoscenico i maestri francesi della filosofia del ‘700, a cominciare da un Diderot petulante e capzioso. Poco male, perché D’Alembert è un avvinazzato che fa fatica a reggersi in piedi, Rousseau ha l’aspetto di uno spaventapasseri che da mesi non vede sapone e Voltaire è un sofisticato Viveur, celebre soprattutto per le principesche colazioni.

A tutti loro fa visita una misteriosa dama. Ma con uno si finge cameriera, con l’altro è una medichessa, e al terzo si presenta vestita da aristocratica.

Scopriremo che si tratta di un’attrice, ruolo nel quale la Piccolo infila una batteria di trovate che la rendono ancora più simpatica di quanto naturalmente è. Sorpresa della serata sono le spassose caricature che Vittorio Viviani fa dei filosofi convocati nella commedia, mettendoci dentro il sapore delle battute che furono di Totò, Eduardo o Dario Fo e un’interpretazione a strascico, come Carlo Cecchi. Risate incalcolabili.

MESSAGGERO VENETO
Sabato 28 febbraio 2009
Mario Brandolin
Meschinerie e farsa attorno al “Candido”
Gran teatro con Ottavia Piccolo

Non erano proprio dei campioni di ragionevolezza gli illuminati Padri dell’età dei lumi! Soggetti piuttosto alle meschinerie dell’invidia, cedevolissimi alle mutevolezze dell’oscuro sentire, agli imprevisti dell’umor nero, rancorosi coi colleghi, gelosi dei successi altrui e altre poco illuminate piacevolezze… Almeno così ce li racconta il giovane fiorentino Stefano Massini nel suo ultimo lavoro teatrale, La commedia di Candido, per due sere al Teatro Comunale di Monfalcone.

La commedia, che spesso vira piacevolmente nei toni nei toni irriverenti e spassosi della farsa, si sviluppa come “avventura teatrale di una gran dama, tre grandi e un libro, ( con tutto lo scompiglio che seguì)”, così il sottotitolo. La dama è un’attrice in cerca di occupazione, i tre grandi sono Diderot, Rousseau e Voltaire, il libro è “Candido” di Voltaire. Ed è proprio attorno a quest’ultimo, considerato tra i testi del ‘700 uno dei più attuali , moderni e “cattivi” per come tratta la società del suo tempo, che si scatena il gioco scenico allestito da Massini con ironia e intelligenza, con buona dose di scaltrezza e furbizia drammaturgica, assemblando il dato storico con l’invenzione più libera. Augustine, così la protagonista, attrice un poco in disarmo, tenta di riciclarsi come cameriera in casa Diderot, che stressato dalla moglie decide di licenziarla. Arriva però D’Alembert, piuttosto alticcio, che inquieta Diderot con la storia di un libro, “Candido” appunto, nel quale ci sarebbe un gran mal dire di tutti, e dei filosofi in particolare. Copie di pagine del libro sarebbero nelle mani di Rousseau, che, guarda caso, è ben conosciuto da Augustine, che dietro lauta ricompensa dei due enciclopedisti si incarica di scoprire di più di questo pericoloso libello.

Arriva così a Ginevra da Rousseau, misantropo come pochi e come non mai, scopre quello che deve scoprire e già che c’è si presenta da Voltaire, sotto spoglie di gran dama dei Lumi. Qui, alla fine, con un escamotage salverà proprio Voltaire da sicura prigione, visto che il suo “Candido”, accusato di blasfemia e sovversivismo, non risparmia la religione istituzioni come l’esercito. E in realtà per molto tempo, proprio a causa dello scandalo che il libro suscitò, Voltaire non lo riconobbe come suo, ma di un tale “dottor Ralph tedesco”.

Ora lo spettacolo che il regista Fantoni ne ha tratto, nella luminosità di una scena semplice ed essenziale e nei costumi fantasiosi e sgargianti di Gianluca Sbicca e Simone Valsecchi, si fa forte dell’interpretazione di una scatenata Ottavia Piccolo, autoironica e assai divertita e perciò contagiosa e irresistibile, nel triplice ruolo di Augustine: ora serva dispensatrice di saggezza popolaresca per Diderot, ora speziale trombone per le ipocondrie di Rousseau, ora polposissima gran dama per lo snobismo di Voltaire e di quella di Vittorio Viviani, che dei tre grandi illuminati ci regala belle caratterizzazioni, appoggiandosi a godibilissime invenzioni che rimandano all’arte comica di Eduardo, piuttosto che alla maschera di Totò o alla svagatezza nevrotica di Carlo Cecchi. Con loro molto calorosamente applauditi dal pubblico, anche Massimiliano Giovanetti, D’Alembert col naso rosso da ubriacone e gesuita che minaccia il rogo; Natalia Magni che si triplica nelle vesti comprensibilmente agitate delle tre mogli; Alessandro Pazzi, un generale guerrafondaio di quelli armiamoci e partite, e ancora nel ruolo di due pimpanti servette, quelle che sottraggono e fanno girare i fogli manoscritti del “Candido”, Francesca Farcomeni e Desirèe Giorgetti. Uno spettacolo che auspicabilmente rivedremo, e lo faremo volentieri, la prossima stagione in regione.

venerdì 27 febbraio 2009

Chi ha ragione?

Vi proponiamo un confronto tra le due posizioni espresse, in merito al finanziamento statale al teatro, da Alessandro Baricco (sulle pagine de "La Repubblica" )e da Alberto Francesconi (presidente dell'Agis, in una lettera al Presidente del Consiglio): CHI HA RAGIONE?


In questi tempi di crisi non si può più pensare che tutta la cultura
sia finanziata con i fondi statali.
L'intervento pubblico ha prodotto stagnazione

Basta soldi pubblici al teatro meglio puntare su scuola e tv
di ALESSANDRO BARICCO

Sotto la lente della crisi economica, piccole crepe diventano enormi, nella ceramica di tante vite individuali, ma anche nel muro di pietra del nostro convivere civile. Una che si sta spalancando, non sanguinosa ma solenne, è quella che riguarda le sovvenzioni pubbliche alla cultura. Il fiume di denaro che si riversa in teatri, musei, festival, rassegne, convegni, fondazioni e associazioni. Dato che il fiume si sta estinguendo, ci si interroga. Si protesta. Si dibatte. Un commissariamento qui, un'indagine per malversazione là, si collezionano sintomi di un'agonia che potrebbe anche essere lunghissima, ma che questa volta non lo sarà. Sotto la lente della crisi economica, prenderà tutto fuoco, molto più velocemente di quanto si creda.

In situazioni come queste, nei film americani puoi solo fare due cose: o scappi o pensi molto velocemente. Scappare è inelegante. Ecco il momento di pensare molto velocemente. Lo devono fare tutti quelli cui sta a cuore la tensione culturale del nostro Paese, e tutti quelli che quella situazione la conoscono da vicino, per averci lavorato, a qualsiasi livello. Io rispondo alla descrizione, quindi eccomi qui. In realtà mi ci vorrebbe un libro per dire tutto ciò che penso dell'intreccio fra denaro pubblico e cultura, ma pensare velocemente vuol dire anche pensare l'essenziale, ed è ciò che cercherò di fare qui.

Se cerco di capire cosa, tempo fa, ci abbia portato a usare il denaro pubblico per sostenere la vita culturale di un Paese, mi vengono in mente due buone ragioni. Prima: allargare il privilegio della crescita culturale, rendendo accessibili i luoghi e i riti della cultura alla maggior parte della comunità. Seconda: difendere dall'inerzia del mercato alcuni gesti, o repertori, che probabilmente non avrebbero avuto la forza di sopravvivere alla logica del profitto, e che tuttavia ci sembravano irrinunciabili per tramandare un certo grado di civiltà.


A queste due ragioni ne aggiungerei una terza, più generale, più sofisticata, ma altrettanto importante: la necessità che hanno le democrazie di motivare i cittadini ad assumersi la responsabilità della democrazia: il bisogno di avere cittadini informati, minimamente colti, dotati di principi morali saldi, e di riferimenti culturali forti. Nel difendere la statura culturale del cittadino, le democrazie salvano se stesse, come già sapevano i greci del quinto secolo, e come hanno perfettamente capito le giovani e fragili democrazie europee all'indomani della stagione dei totalitarismi e delle guerre mondiali.

Adesso la domanda dovrebbe essere: questi tre obbiettivi, valgono ancora? Abbiamo voglia di chiederci, con tutta l'onestà possibile, se sono ancora obbiettivi attuali? Io ne ho voglia. E darei questa risposta: probabilmente sono ancora giusti, legittimi, ma andrebbero ricollocati nel paesaggio che ci circonda. Vanno aggiornati alla luce di ciò che è successo da quando li abbiamo concepiti. Provo a spiegare.

Prendiamo il primo obbiettivo: estendere il privilegio della cultura, rendere accessibili i luoghi dell'intelligenza e del sapere. Ora, ecco una cosa che è successa negli ultimi quindici anni nell'ambito dei consumi culturali: una reale esplosione dei confini, un'estensione dei privilegi, e un generale incremento dell'accessibilità. L'espressione che meglio ha registrato questa rivoluzione è americana: the age of mass intelligence, l'epoca dell'intelligenza di massa.

Oggi non avrebbe più senso pensare alla cultura come al privilegio circoscritto di un'élite abbiente: è diventata un campo aperto in cui fanno massicce scorribande fasce sociali che da sempre erano state tenute fuori dalla porta. Quel che è importante è capire perché questo è successo. Grazie al paziente lavoro dei soldi pubblici? No, o almeno molto di rado, e sempre a traino di altre cose già successe. La cassaforte dei privilegi culturali è stata scassinata da una serie di cause incrociate: Internet, globalizzazione, nuove tecnologie, maggior ricchezza collettiva, aumento del tempo libero, aggressività delle imprese private in cerca di un'espansione dei mercati. Tutte cose accadute nel campo aperto del mercato, senza alcuna protezione specifica di carattere pubblico.

Se andiamo a vedere i settori in cui lo spalancamento è stato più clamoroso, vengono in mente i libri, la musica leggera, la produzione audiovisiva: sono ambiti in cui il denaro pubblico è quasi assente. Al contrario, dove l'intervento pubblico è massiccio, l'esplosione appare molto più contratta, lenta, se non assente: pensate all'opera lirica, alla musica classica, al teatro: se non sono stagnanti, poco ci manca. Non è il caso di fare deduzioni troppo meccaniche, ma l'indizio è chiaro: se si tratta di eliminare barriere e smantellare privilegi, nel 2009, è meglio lasciar fare al mercato e non disturbare. Questo non significa dimenticare che la battaglia contro il privilegio culturale è ancora lontana dall'essere vinta: sappiamo bene che esistono ancora grandi caselle del Paese in cui il consumo culturale è al lumicino. Ma i confini si sono spostati. Chi oggi non accede alla vita culturale abita spazi bianchi della società che sono raggiungibili attraverso due soli canali: scuola e televisione. Quando si parla di fondi pubblici per la cultura, non si parla di scuola e di televisione. Sono soldi che spendiamo altrove. Apparentemente dove non servono più. Se una lotta contro l'emarginazione culturale è sacrosanta, noi la stiamo combattendo su un campo in cui la battaglia è già finita.

Secondo obbiettivo: la difesa di gesti e repertori preziosi che, per gli alti costi o il relativo appeal, non reggerebbero all'impatto con una spietata logica di mercato. Per capirci: salvare le regie teatrali da milioni di euro, La figlia del reggimento di Donizetti, il corpo di ballo della Scala, la musica di Stockhausen, i convegni sulla poesia dialettale, e così via. Qui la faccenda è delicata. Il principio, in sé, è condivisibile. Ma, nel tempo, l'ingenuità che gli è sottesa ha raggiunto livelli di evidenza quasi offensivi.

Il punto è: solo col candore e l'ottimismo degli anni Sessanta si poteva davvero credere che la politica, l'intelligenza e il sapere della politica, potessero decretare cos'era da salvare e cosa no. Se uno pensa alla filiera di intelligenze e saperi che porta dal ministro competente giù fino al singolo direttore artistico, passando per i vari assessori, siamo proprio sicuri di avere davanti agli occhi una rete di impressionante lucidità intellettuale, capace di capire, meglio di altri, lo spirito del tempo e le dinamiche dell'intelligenza collettiva? Con tutto il rispetto, la risposta è no. Potrebbero fare di meglio i privati, il mercato? Probabilmente no, ma sono convinto che non avrebbero neanche potuto fare di peggio.

Mi resta la certezza che l'accanimento terapeutico su spettacoli agonizzanti, e ancor di più la posizione monopolistica in cui il denaro pubblico si mette per difenderli, abbiano creato guasti imprevisti di cui bisognerebbe ormai prendere atto. Non riesco a non pensare, ad esempio, che l'insistita difesa della musica contemporanea abbia generato una situazione artificiale da cui pubblico e compositori, in Italia, non si sono più rimessi: chi scrive musica non sa più esattamente cosa sta facendo e per chi, e il pubblico è in confusione, tanto da non capire neanche più Allevi da che parte sta (io lo so, ma col cavolo che ve lo dico).

Oppure: vogliamo parlare dell'appassionata difesa del teatro di regia, diventato praticamente l'unico teatro riconosciuto in Italia? Adesso possiamo dire con tranquillità che ci ha regalato tanti indimenticabili spettacoli, ma anche che ha decimato le file dei drammaturghi e complicato la vita degli attori: il risultato è che nel nostro paese non esiste quasi più quel fare rotondo e naturale che mettendo semplicemente in linea uno che scrive, uno che recita, uno che mette in scena e uno che ha soldi da investire, produce il teatro come lo conoscono i paesi anglosassoni: un gesto naturale, che si incrocia facilmente con letteratura e cinema, e che entra nella normale quotidianità della gente.

Come vedete, i principi sarebbero anche buoni, ma gli effetti collaterali sono incontrollati. Aggiungo che la vera rovina si è raggiunta quando la difesa di qualcosa ha portato a una posizione monopolistica. Quando un mecenate, non importa se pubblico o privato, è l'unico soggetto operativo in un determinato mercato, e in più non è costretto a fare di conto, mettendo in preventivo di perdere denaro, l'effetto che genera intorno è la desertificazione. Opera, teatro, musica classica, festival culturali, premi, formazione professionale: tutti ambiti che il denaro pubblico presidia più o meno integralmente. Margini di manovra per i privati: minimi. Siamo sicuri che è quello che vogliamo? Siamo sicuri che sia questo il sistema giusto per non farci derubare dell'eredità culturale che abbiamo ricevuto e che vogliamo passare ai nostri figli?

Terzo obbiettivo: nella crescita culturale dei cittadini le democrazie fondano la loro stabilità. Giusto. Ma ho un esempietto che può far riflettere, fatalmente riservato agli elettori di centrosinistra. Berlusconi. Circola la convinzione che quell'uomo, con tre televisioni, più altre tre a traino o episodicamente controllate, abbia dissestato la caratura morale e la statura culturale di questo Paese dalle fondamenta: col risultato di generare, quasi come un effetto meccanico, una certa inadeguatezza collettiva alle regole impegnative della democrazia. Nel modo più chiaro e sintetico ho visto enunciata questa idea da Nanni Moretti, nel suo lavoro e nelle sue parole. Non è una posizione che mi convince (a me Berlusconi sembra più una conseguenza che una causa) ma so che è largamente condivisa, e quindi la possiamo prendere per buona. E chiederci: come mai la grandiosa diga culturale che avevamo immaginato di issare con i soldi dei contribuenti (cioè i nostri) ha ceduto per così poco?

Bastava mettere su tre canali televisivi per aggirare la grandiosa cerchia di mura a cui avevamo lavorato? Evidentemente sì. E i torrioni che abbiamo difeso, i concerti di lieder, le raffinate messe in scena di Cechov, la Figlia del reggimento, le mostre sull'arte toscana del quattrocento, i musei di arte contemporanea, le fiere del libro? Dov'erano, quando servivano? Possibile che non abbiano visto passare il Grande Fratello? Sì, possibile. E allora siamo costretti a dedurre che la battaglia era giusta, ma la linea di difesa sbagliata. O friabile. O marcia. O corrotta. Ma più probabilmente: l'avevamo solo alzata nel luogo sbagliato.

Riassunto. L'idea di avvitare viti nel legno per rendere il tavolo più robusto è buona: ma il fatto è che avvitiamo a martellate, o con forbicine da unghie. Avvitiamo col pelapatate. Fra un po' avviteremo con le dita, quando finiranno i soldi.

Cosa fare, allora? Tenere saldi gli obbiettivi e cambiare strategia, è ovvio. A me sembrerebbe logico, ad esempio, fare due, semplici mosse, che qui sintetizzo, per l'ulcera di tanti.

1. Spostate quei soldi, per favore, nella scuola e nella televisione. Il Paese reale è lì, ed è lì la battaglia che dovremmo combattere con quei soldi. Perché mai lasciamo scappare mandrie intere dal recinto, senza battere ciglio, per poi dannarci a inseguire i fuggitivi, uno ad uno, tempo dopo, a colpi di teatri, musei, festival, fiere e eventi, dissanguandoci in un lavoro assurdo? Che senso ha salvare l'Opera e produrre studenti che ne sanno più di chimica che di Verdi? Cosa vuol dire pagare stagioni di concerti per un Paese in cui non si studia la storia della musica neanche quando si studia il romanticismo? Perché fare tanto i fighetti programmando teatro sublime, quando in televisione già trasmettere Benigni pare un atto di eroismo? Con che faccia sovvenzionare festival di storia, medicina, filosofia, etnomusicologia, quando il sapere, in televisione - dove sarebbe per tutti - esisterà solo fino a quando gli Angela faranno figli? Chiudete i Teatri Stabili e aprite un teatro in ogni scuola. Azzerate i convegni e pensate a costruire una nuova generazione di insegnanti preparati e ben pagati. Liberatevi delle Fondazioni e delle Case che promuovono la lettura, e mettete una trasmissione decente sui libri in prima serata. Abbandonate i cartelloni di musica da camera e con i soldi risparmiati permettiamoci una sera alla settimana di tivù che se ne frega dell'Auditel.

Lo dico in un altro modo: smettetela di pensare che sia un obbiettivo del denaro pubblico produrre un'offerta di spettacoli, eventi, festival: non lo è più. Il mercato sarebbe oggi abbastanza maturo e dinamico da fare tranquillamente da solo. Quei soldi servono a una cosa fondamentale, una cosa che il mercato non sa e non vuole fare: formare un pubblico consapevole, colto, moderno. E farlo là dove il pubblico è ancora tutto, senza discriminazioni di ceto e di biografia personale: a scuola, innanzitutto, e poi davanti alla televisione.
La funzione pubblica deve tornare alla sua vocazione originaria: alfabetizzare. C'è da realizzare una seconda alfabetizzazione del paese, che metta in grado tutti di leggere e scrivere il moderno. Solo questo può generare uguaglianza e trasmettere valori morali e intellettuali. Tutto il resto, è un falso scopo.

2. Lasciare che negli enormi spazi aperti creati da questa sorta di ritirata strategica si vadano a piazzare i privati. Questo è un punto delicato, perché passa attraverso la distruzione di un tabù: la cultura come business. Uno ha in mente subito il cattivo che arriva e distrugge tutto. Ma, ad esempio, la cosa non ci fa paura nel mondo dei libri o dell'informazione: avete mai sentito la mancanza di una casa editrice o di un quotidiano statale, o regionale, o comunale? Per restare ai libri: vi sembrano banditi Mondadori, Feltrinelli, Rizzoli, Adelphi, per non parlare dei piccoli e medi editori? Vi sembrano pirati i librai? È gente che fa cultura e fa business. Il mondo dei libri è quello che ci consegnano loro. Non sarà un paradiso, ma l'inferno è un'altra cosa. E allora perché il teatro no? Provate a immaginare che nella vostra città ci siano quattro cartelloni teatrali, fatti da Mondadori, De Agostini, Benetton e vostro cugino. È davvero così terrorizzante? Sentireste la lancinante mancanza di un Teatro Stabile finanziato dai vostri soldi?

Quel che bisognerebbe fare è creare i presupposti per una vera impresa privata nell'ambito della cultura. Crederci e, col denaro pubblico, dare una mano, senza moralismi fuori luogo. Se si hanno timori sulla qualità del prodotto finale o sull'accessibilità economica dei servizi, intervenire a supportare nel modo più spudorato. Lo dico in modo brutale: abituiamoci a dare i nostri soldi a qualcuno che li userà per produrre cultura e profitti. Basta con l'ipocrisia delle associazioni o delle fondazioni, che non possono produrre utili: come se non fossero utili gli stipendi, e i favori, e le regalie, e l'autopromozione personale, e i piccoli poteri derivati. Abituiamoci ad accettare imprese vere e proprie che producono cultura e profitti economici, e usiamo le risorse pubbliche per metterle in condizione di tenere prezzi bassi e di generare qualità. Dimentichiamoci di fargli pagare tasse, apriamogli l'accesso al patrimonio immobiliare delle città, alleggeriamo il prezzo del lavoro, costringiamo le banche a politiche di prestito veloci e superagevolate.

Il mondo della cultura e dello spettacolo, nel nostro Paese, è tenuto in piedi ogni giorno da migliaia di persone, a tutti i livelli, che fanno quel lavoro con passione e capacità: diamogli la possibilità di lavorare in un campo aperto, sintonizzato coi consumi reali, alleggerito dalle pastoie politiche, e rivitalizzato da un vero confronto col mercato. Sono grandi ormai, chiudiamo questo asilo infantile. Sembra un problema tecnico, ma è invece soprattutto una rivoluzione mentale. I freni sono ideologici, non pratici. Sembra un'utopia, ma l'utopia è nella nostra testa: non c'è posto in cui sia più facile farla diventare realtà.

(24 febbraio 2009)



Roma, 23 febbraio 2009

LETTERA APERTA AL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
del Presidente dell'Agis Alberto Francesconi

Illustre Presidente,
nel rispetto dell’azione avviata dal Suo Governo per contrastare i riflessi nazionali della crisi mondiale dell’economia virtuale e reale, abbiamo seguito con silente attenzione le vicende della legge finanziaria 2009 per il profilo direttamente interessante le attività culturali dello spettacolo.
Abbiamo conclusivamente registrato che il Fondo Unico per lo Spettacolo è stato definito in 398 milioni di euro, 169 milioni in meno (-42%) di quanto previsto nella finanziaria 2008 per il corrente esercizio (567 milioni).
Consapevoli delle difficoltà generali delle imprese, dei lavoratori e dello loro famiglie (compresi quelli dello spettacolo) abbiamo atteso un intervento parzialmente riequilibratore con i provvedimenti successivi alla legge di bilancio che hanno riguardato disposizioni finanziarie urgenti e norme per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione ed imprese.
Non così per le attività culturali dello spettacolo, che da settembre avevano chiesto al Ministero di riferimento di poter congiuntamente monitorare l’evolversi della situazione in tutte le sedi deputate, onde evitare il tracollo del sistema in atto.
Abbiamo conosciuto gli ultimi e fondati provvedimenti del Governo che hanno riguardato i settori auto, moto, elettrodomestici, mobili, credito, innovazione tecnologica con interventi complessivi per due miliardi di euro.
Lo spettacolo, quindi, ancora escluso nonostante sia pienamente colpito dalla crisi economica generale; le nostre imprese completamente escluse dagli interventi d’urgenza con l’aggravante della riduzione del Fondo Unico per lo spettacolo, irrisoria per il bilancio dello Stato, ma che ha effetti devastanti sulla produttività, i consumi e l’occupazione.
Consideri, inoltre, che le imprese di spettacolo nel realizzare la propria attività sono un volano di risorse economiche sia per i dipendenti occupati che per il sistema delle piccole e medie imprese che costituiscono il forte indotto del settore.
A questo punto, con questa lettera aperta lo Spettacolo italiano Le rivolge le seguenti domande:
1) ritiene o no essere le attività dello spettacolo componenti essenziali della cultura e, quindi, dell’identità nazionale?
2) ritiene o no che le risorse finanziarie destinate al settore debbono essere qualificate come investimento e non spesa corrente?
3) ritiene o no che il sistema di equilibrio delicato delle imprese dello spettacolo possa continuare ad operare con il taglio dei finanziamenti del 42% da un anno all’altro, con attività di impresa programmata e contrattualizzata?
4) ritiene o no che sia giunto il momento di avviare riforme per dare al Cinema e allo spettacolo dal vivo (Musica, Teatro, Danza, Circhi e spettacolo viaggiante) regole certe dopo oltre 40 anni dalle ultime leggi?
5) ritiene o no che sia giusto il comportamento dei suoi colleghi Obama e Sarkozy che per contrastare la crisi attuale hanno rilanciato i valori della cultura, e cioè l’etica del fare e delle scelte?
Attendiamo una Sua risposta con atti immediati ed urgenti per avviare l’azione legislativa delle riforme per il cui sostegno è necessario rifinanziare con valenza triennale il Fondo unico per lo spettacolo in modo da portare a compimento le riforme richieste sostenendo la continuità dell’attività delle imprese, l’andamento dei consumi, l’occupazione di 200 mila addetti che non possono usufruire degli ammortizzatori sociali.
Se ciò accadrà non sarà nulla di più di quanto fatto per altri settori, riconoscendo che le nostre imprese, i nostri lavoratori, i nostri precari, le nostre famiglie, e i consumi di spettacolo non sono figli di un dio minore.
Ma il Governo deve sapere che se non dovesse accadere nulla, le nostre imprese nella seconda metà di quest’anno dovranno prevedere non la ridefinizione di bilanci, ma la cessazione di attività già contrattualizzata, con i conseguenti licenziamenti.
E la collettività nazionale dovrà prendere dolorosamente atto che il Governo non considera le attività culturali dello spettacolo componente importante per la qualità della vita del nostro Paese, per la cultura e l’identità nazionale, in un momento in cui per contrastare la crisi sono universalmente richiamati valori di cui lo spettacolo è da sempre portatore naturale.

Il Presidente dell'Agis Alberto Francesconi

venerdì 20 febbraio 2009

Le nostre produzioni per la stagione 2009/2010


OTTAVIA PICCOLO
in

LA COMMEDIA DI CANDIDO

Di Stefano Massini


Con
VITTORIO VIVIANI

e con
NATALIA MAGNI
MASSIMO ZORDAN
FRANCESCA FARCOMENI
ALESSANDRO PAZZI
DESIREE GIORGETTI

Regìa di
SERGIO FANTONI




MASSIMO VENTURIELLO e TOSCA in

LA STRADA

Di Tullio Pinelli e Bernardino Zapponi
Dramma con musiche ispirato al film di Federico Fellini
Musiche di Germano Mazzocchetti
Con
e con
CAMILLO GRASSI
FRANCO SILVESTRI
BARBARA CORRADIN
DANIELA CERA,
DARIO CIOTOLI
ALBERTA IZZO
Regìa di
MASSIMO VENTURIELLO
In coproduzione con Compagnia Mario Chiocchio